Mike Gordon Oldfield
nasce a Reading il 15 maggio 1953. La sua passione per la musica
comincia a manifestarsi alla tenera età di sette anni quando, dopo aver
visto in TV il virtuoso Bert Weedon, convince il padre a
comprargli una chitarra. La musica diventa ben presto il suo passatempo
preferito, nonché il rifugio che gli permette di estraniarsi da una
situazione familiare infelice, con una madre
alcolizzata e afflitta da crisi depressive; il difficile rapporto con la
madre contribuì in maniera schiacciante alla creazione di una
personalità introversa, che causerà a Mike non pochi problemi nella sua prima parte di carriera. Abbandonate prima la
famiglia e poi la scuola, Mike comincia a suonare nei club e dà vita al duo folk Sallyangie con la sorella Sally; la coppia inciderà due 45 giri (Lady Go Lightly e Two Ships)
e un album ("Children Of The Sun"), che ebbe scarso successo e
causò la fine del progetto. Una breve parentesi nella sua vita artistica
si rivela essere anche il successivo gruppo The Barefeet formato assieme al fratello Terry. Ben più importanza ha invece il suo ingresso nel 1969 come bassista-chitarrista nella band The Whole World formata da Kevin Ayers in fuga dai Soft Machine: Mike incide al suo fianco gli studio-album "Shooting At The Moon", " Whatevershebringswesing, Confessions Of Dr. Dream And Other Stories " e il live "June 1, 1974" (ricordiamo anche le raccolte "The Kevin Ayers Collection" e "Odd Ditties"),
prima dello scioglimento della band avvenuto nel 1971. Durante la
permanenza nella band Mike stringe amicizia col tastierista e direttore
d’orchestra David Bedford (che avrà un ruolo abbastanza
importante nel suo primo scorcio di carriera), viene a contatto con
realtà musicali atipiche come i Centipede di Keith Tippett (pianista collaboratore ad esempio dei King Crimson), vede la sua fama di chitarrista crescere e, soprattutto, comincia a pensare ad un suo album solista.
Un avvenimento cruciale per Oldfield è dietro
l’angolo: armeggiando con un registratore prestatogli da Ayers, coprendo
la testina di cancellazione riesce a effettuare delle sovraincisioni
che gli permetteranno di fissare meglio le idee per la sua opera prima;
la contemporanea permanenza presso gli studi Abbey Road gli consente
inoltre di sfruttare un ricco arsenale di strumenti per arricchire le
scarne tracce che aveva cominciato a registrare. Pian piano un demo
prende finalmente forma – il quale nel corso della lavorazione assumerà
diversi nomi come Breakfast In Bed e Opus One, prima del definitivo "Tubular Bells"
- e Mike lo propone alle varie case discografiche, ottenendo sempre
rifiuti causati dalla dubbia commercialità di un album che presenta
svariati minuti di musica atipica e interamente strumentale.
Impossibilitato a registrare il suo lavoro, Mikesi guadagna da vivere come suonando la chitarra per il musical Hair e il basso per il cantante soul Arthur Lewis. Ed ecco il colpo di fortuna: al seguito di Lewis, Mike è invitato per delle registrazioni presso lo studio The Manor di proprietà di Richard Branson (venditore di dischi per corrispondenza con la sua Virgin Mail Order Record Company) e costruito sotto consiglio degli ingegneri del suono Tom Newman e Simon Heyworth.
L’amichevole atmosfera che respira nello studio smuove il timidissimo
Oldfield, che trova la forza di proporre il suo prezioso nastro a Newman
e Heyworth; i due rimangono molto colpiti dal suo ascolto e decidono di
convincere Branson a pubblicare il disco sul quale Mike continua a
lavorare in privato ma che deve restare ancora “congelato” perché
Branson (pur essendo anch’egli colpito dal lavoro) non ha né i soldi né
l’esperienza necessari per la sua pubblicazione.
Con l’entrata in scena di Simon Draper, un nuovo socio con cui aveva deciso di fondare un’etichettadiscografica, Branson si ricorda di Mike e lo contatta, anche se in
cuor suo è convinto che qualche altra casa discografica gli avesse già
soffiato l’affare; invece per sua (e nostra) fortuna Mike è impegnato
solamente con Hair. Il The Manor viene finalmente attrezzato con
tutti gli strumenti necessari e messo a disposizione di Oldfield per una
settimana, tempo in cui Mike (col prezioso aiuto di Newman e Heyworth)
riesce a realizzare la prima facciata dell’album (il resto del lavoro
verrà completato in successive sessioni di registrazione), per un totale
di più di venti strumenti diversi suonati da Mike (con pochi aiuti
esterni, ad esempio per batteria e cori), più di duemila sovraincisioni
effettuate (il nastro finale è talmente usurato che rischia di rompersi)
e un tasso di paranoia dei tre altissimo (fu un’impresa titanica
ricordarsi il ruolo delle varie tracce man mano che le sovraincisioni
erano effettuate); assieme a "Tubular Bells" fu registrata anche una session con Elkie Brooks intitolata The Manor Live.
Completate le registrazioni, Branson e Draper si recano al Midam di
Cannes (la fiera dell’industria e del commercio musicale) per proporle
ai dirigenti di
svariate case discografiche, i quali si mostrano interessati solamente
al trascurabile The Manor Live ignorando totalmente la ben più
meritevole suite. Disgustati dalla situazione, i due si rendono conto
che l’unico modo per far vedere la luce al disco è quello di pubblicarlo
in proprio.
Discografia
Tubular Bells (1973)
"Tubular Bells" divenne così la prima pubblicazione della neonata label Virgin,
acclamata dai critici (seppur non inquadrabile in nessun genere) per il
suo carattere rivoluzionario e uno straordinario successo di pubblico,
dapprima solo inglese (primo posto in classifica per 15 settimane) e poi
anche europeo, complice anche l’inclusione dell’intro del disco nella
colonna sonora del film L'Esorcista. "Tubular Bells"
resta tuttora il disco più venduto dell’intero catalogo Virgin,
nonostante la presenza in tale etichetta di altri colossi come Genesis, Peter Gabriel o Simple Minds.
Da qui comincia la favola di Oldfield. Un successo meritato per un disco
complesso ma non di difficile ascolto, in cui il suo creatore ha sempre
creduto ciecamente; un susseguirsi di frammenti musicali, creati dalla
sovrapposizione di strumenti suonati perlopiù da Mike stesso, alcuni
entrati di diritto nella storia della musica (il già citato tema
d’apertura oppure la conclusione della prima parte, ove il maestro di
cerimonie Viv Stanshall annuncia l’ingresso dei vari strumenti, i
quali si vanno via via a sovrapporre e a preparare il terreno per
l’ingresso trionfale delle Campane Tubolari) che senza una vera e
propria soluzione di continuità costituiscono circa 50 minuti (divisi in
due parti) di musica travolgente, evocativa e ricca di cambi di umori.
Significativa (e per quei tempi assolutamente inusuale) l’assenza per
quasi tutto il disco di batteria e di parti cantate, presenti solo in
uno spezzone della seconda parte denominato The Piltdown Man Section,
dove Mike, dopo essersi scolato mezza bottiglia di whisky, esterna
tutta la sua frustrazione al mondo intero con i suoi grugniti da uomo
delle caverne; scherzosa è anche la conclusione dell’opera, affidata al
traditional The Sailor’s Hornpipe (per intenderci, la sigla dei cartoon di Braccio Di Ferro). Un album che non deve mancare in nessuna cd-teca che si rispetti.
Hergest ridge (1974)
Mike
non è preparato a quel successo che tanto aveva desiderato: lo stress
post-registrazione e il suicidio della madre lo portano, in preda a
allucinazioni e attacchi di panico, a rifugiarsi nell’alcool e nell’LSD.
In questo stato abbastanza precario, e sotto le continue pressioni di
Branson che voleva sfruttare la scia del successo del precedente disco
(e quindi pretendeva un nuovo album in tempi brevi), Oldfield comincia a
lavorare al successore di "Tubular Bells" . I tratti distintivi
del suo predecessore non vanno persi: suite divisa in due parti (che
prende il nome dalle alture situate in prossimità della sua nuova casa),
la consueta caterva di strumenti suonati dal nostro, assenza di
batteria, voci usate come uno strumento, e così via. Il sound di "Hergest Ridge"
è meno “misterioso” rispetto al predecessore, e Oldfield è molto bravo
ad evocare con queste nuove composizioni il verde delle praterie
inglesi; il disco si rivela molto gradevole da ascoltare ma nel contempo
sono molto rare le situazioni in cui riesce a sorprendere l’ascoltatore
(una di esse è senza dubbio la sezione centrale della seconda parte, in
cui, sebbene un po’ troppo tirato per le lunghe, troviamo un assalto
sonoro di indubbio fascino condotto da novanta chitarre sovraincise).
E’ comunque di nuovo successo, a dimostrare che Mike Oldfield non è un fenomeno passeggero.
E’ comunque di nuovo successo, a dimostrare che Mike Oldfield non è un fenomeno passeggero.
Ommadawn (1975)
Il 1975 vede l’uscita di due lavori di Oldfield: per primo abbiamo la versione orchestrale di "Tubular
Bells" (ad opera della Royal Philarmonic Orchestra con arrangiamenti e conduzione ad opera
di David Bedford), dove l’unico strumento suonato da Oldfield è
la chitarra, e poi il suo terzo album vero e proprio, dallo strano
titolo (una parola senza senso, che più o meno significa ”lo stupido” in
gaelico). In "Ommadawn" è riproposto l’ormai usuale schema
della suite strumentale divisa in due parti, però qualche variazione
comincia ad affiorare: l’arpa assume spesso un ruolo di primo piano (in
particolare nella sezione introduttiva, che rivaleggia per bellezza con
quella di "Tubular Bells"), cominciano a manifestarsi influenze celtiche (ospite Paddy Moloney dei Chieftains), sono presenti le percussioni africane ad opera dei Jabula e a conclusione dell’opera troviamo un ottimo pezzo cantato (On Horseback). Più variegato di "Hergest Ridge" e meno frammentario di "Tubular Bells", "Ommadawn
" è senza dubbio uno dei punti più alti della produzione Oldfieldiana che è anche, a mio parere, qualitativamente una spanna sopra "Tubular Bells".
" è senza dubbio uno dei punti più alti della produzione Oldfieldiana che è anche, a mio parere, qualitativamente una spanna sopra "Tubular Bells".
Mike farà uscire il singolo natalizio In dulci jubilo; intanto il suo carattere chiuso ha il sopravvento e lo porta a dimiinuire al minimo le interviste e a non esibirsi affatto dal vivo.
Incantations (1977)
Il 1976 vede l’uscita di "Boxed", cofanetto con inediti che raccoglie i primi tre album remixati in versione quadrifonica. Seguono il singolo natalizio Po
rtsmouth di buon successo; il ritorno al live nella rappresentazione di The Odyssey di Bedford e due singoli di scarso successo: l’overture del Guglielmo Tell di Rossini e un traditional inglese, The Cuckoo Song.
rtsmouth di buon successo; il ritorno al live nella rappresentazione di The Odyssey di Bedford e due singoli di scarso successo: l’overture del Guglielmo Tell di Rossini e un traditional inglese, The Cuckoo Song.
In pratica, quello che sta facendo Mike in realtà è ricaricare le sue
“batterie”, affidandosi a Exegesis, una terapia che consente di
affrontare la proprie paure e potenziare i lati più positivi della
propria personalità; parallelamente alla terapia, Mike si dedica alla
composizione del nuovo disco "Incantations, un doppio album che
propone un’unica suite divisa in quattro parti ove il nostro,
strumentalmente parlando, non assume quel ruolo di primo piano avuto
negli album precedenti preferendo utilizzare soprattutto archi, flauti,
vibrafono e cori ad opera di ospiti. Compositivamente l’album è ad
altissimi livelli e si differenzia dai precedenti, oltre che per le
sonorità, anche per l’ampio uso di tempi dispari (caratteristica
abbastanza inusuale per Oldfield); la sua ampia durata purtroppo non
lascia l’album privo di tempi morti, ma fortunatamente tali momenti sono
piuttosto rari e comunque ci si passa volentieri sopra di fronte ad
esempio alla meravigliosa parte I (dove l’arte Oldfieldiana quasi
raggiunge la perfezione assoluta, e dove le percussioni africane dei
Jabula creano un tappeto ritmico ineguagliabile) oppure di fronte al
finale della parte IV, pura magia tradotta in musica. Ospite speciale è Maddy Prior, vocalist degli Steeleye Span,
che è protagonista di un (troppo, troppo lungo) intervento vocale nella
seconda parte, ove vengono cantati versi tratti dal poema di Longfellow
Song Of Hiawatha).
Purtroppo "Incantations", nonostante la sua stupefacente qualità, ha l'unico difetto di essere pubblicato in piena esplosione punk; pertanto viene denigrato da molti come un'opera inutilmente conservatrice, ottenendo un successo molto inferiore ai precedenti.
Platinum (1979)
Mike ormai è rinato: rilascia fiumi di interviste, incide un bel singolo di matrice “disco” (Guilty),
si concede un matrimonio-lampo con Diana Fuller, figlia del leader di
Exegesis (dopo un mese i due erano già separati), e soprattutto si
lancia in un grandioso tour mondiale con al seguito una truppa di circa
un
centinaio di persone tra musicisti e tecnici. Nonostante i “tutto
esaurito” in quasi tutte le tappe, il tour si rivela fallimentare dal
punto di vista economico; per recuperare qualche soldo Mike pubblica
l’ottimo doppio live
"Exposed" (contenente "Incantations", "Tubular Bells" e Guilty) e dopo qualche mese il nuovo album da studio, "Platinum".
"Platinum" è indubbiamente un disco di rottura col passato, che
mostra la volontà di Mike di rinnovarsi e di non addentrarsi più in
complessi lavori strumentali (una formula che aveva cominciato a mostare
la corda, commercialmente parlando); per la prima volta troviamo la
struttura suite + pezzi brevi che ritroveremo anche in molti degli album
successivi. La suite (nonché title-track) è il capolavoro del disco:
orecchiabilissima, trascinante, nonché molto, molto più facilmente
assimilabile per l’ascoltatore medio rispetto alle precedenti
composizioni e con tanto di sezione fiati e efficaci arrangiamenti
corali. Notevolmente inferiore qualitativamente è la seconda facciata:
buone tracce sono l’atmosferica Woodhenge (dove è il vibrafono di Pierre Moerlen dei Gong a dominare) e la tirata Punkadiddle (un must per le esibizioni dal vivo), mentre potevano tranquillamente escluse dal disco la melensa Into Wonderland (curiosità: la maggior parte dei cd in circolazione riportano questa track come Sally,
un pezzo dedicato da Mike alla sua nuova fidanzata che fu rimosso –
forse per la sua scarsa qualità – all’ultimo momento dalla scaletta del
disco) e la cover di I Got Rhythm di Gershwin: il
frizzante pezzo che siamo abituati ad ascoltare di solito, viene
inspiegabilmente stravolto e trasformato in una sdolcinata ballad, con
scarsi risultati.
Sebbene criticato per la sua commercialità e per la semplicità di fondo che portò molti ad accusare Mike di involuzione, "Platinum" resta un disco meritevole di attenzione e molto indicato per chi si addentra per la prima volta nel mondo oldfieldiano.
QE2 (1980)
A "Platinum" succede un singolo natalizio, Blue Peter, un nuovo tour con formazione estremamente ridotta e il nuovo "QE2" (Queen Elizabeth 2nd), un disco di pura transizione che funziona a intermittenza (malgrado la presenza di musicisti come Phil Collins e Maggie Reilly, che conosceremo meglio nei prossimi dischi), dove Mike mette da parte la sua consueta vena sperimentatrice, e che appare come
una mera prosecuzione del precedente "Platinum". Quest’ultimo particolare si nota soprattutto nei due buoni pezzi iniziali, Taurus I e Sheba, caratterizzati anche da un largo (ed inedito per Mike) uso del vocoder; si prosegue con Conflict, discreto frullato di Bach (!) percussioni, chitarre distorte, influenze folk. La trascurabile Arrival (Abba) è la prima cover del disco, mentre decisamente migliore si rivela essere l’altra cover Wonderful Land degli Shadows (gruppo molto amato da Mike nella sua adolescenza). Reminescenze di "Platinum" affiorano anche durante l’ascolto della discreta Mirage con il suo impetuoso vibrafono, mentre decisamente piatte sono le atmosfere
bucoliche della title-track. Ordinarie infine le conclusive Celt e Molly.
In sintesi, un disco non malvagio ma comunque privo di quei guizzi
qualitativi a cui il nostro ci aveva abituato in precedenza. Forte del
successo del disco, Mike passa buona parte del 1981 in tour
(festeggiando anche la decimilionesima copia di "Tubular Bells" venduta) e preparando il nuovo disco.
Five miles out (1982)
Mike torna con un nuovo lavoro dalla struttura molto simile a "Platinum",
vale a dire una suite sul primo lato e pezzi più brevi sul secondo. Si
tratta di un disco con pochissimi momenti di stanca, caratterizzato
(come l'album
precedente) da un suono “da band”, con l’usuale certosino lavoro di
sovraincisioni di Mike posto un po’ in secondo piano. In apertura
troviamo il secondo capitolo della trilogia di Taurus, ed è
subito magia: un continuo susseguirsi di riuscitissimi temi (affidati di
volta in volta alla chitarra di Oldfield, alle uillean pipes
dell’ospite Paddy Moloney e alle delicate vocals della fantastica Maggie Reilly) che mantengono
sempre viva l’attenzione dell’ascoltatore per quasi 25 minuti. Si procede con Family Man,
un’ottima pop-song cantata dalla Reilly che come singolo inizialmente
non fu un grande successo, ma l’anno dopo la cover version realizzata da
Hall & Oates divenne un hit da top-ten in America. Terzo brano del disco è Orabidoo,
una mini-suite ove si susseguono una dolcissima intro di vibrafono, un
tema al vocoder su un robusto tappeto percussivo (carino all’inizio ma
che, a dire il vero, diventa subito stancante), e fughe tastieristiche
d’effetto prima di un finale molto pacato. Concludono il disco, sempre
ad alti livelli qualitativi, Mount Teidi, brano strumentale dalla
bellezza disarmante dominato da splendidi ricami di synth, e la title
track, un brano di breve durata (ispirato da un incidente aereo vissuto
in prima persona da Oldfield stesso) che riprende alcune linee melodiche
già ascoltate su Taurus II arricchendole con efficaci intrecci vocali (all’occorrenza filtrati dal vocoder) tra la Reilly e Oldfield stesso.
Disco consigliatissimo, che ebbe il giusto successo e portò nuovamente Mike in giro per il Mondo in tour.
Crises (1983)
Un
altro bel frutto della rinnovata vena creativa di Oldfield: ottimo
compromesso tra qualità e commercialità, aspetto che non mancò di
suscitare forti critiche nel mondo della carta stampata. La struttura
dell’album è invariata rispetto al precedente: suite + brani brevi. La
suite è la title-track: un pezzo perlopiù strumentale (tranne qualche
sporadico intervento cantato ad opera dello stesso Oldfield) sempre su
altissimi livelli compositivi, dove i synth di Oldfield (innamoratosi in
quel periodo del Fairlight, una potentissima workstation digitale) e il
terremotante drumming del veterano Simon Phillips (già con Who, Toto
e tanti altri artisti) creano una miscela sonora esplosiva. Anche i
pezzi brevi sono tutti di ottimo livello: si tratta di quattro brani
cantati (da tre diversi vocalist) e uno strumentale. Si parte con il
celeberrimo hit-single Moonlight Shadow cantata da Maggie Reilly,
una delle migliori pop-song di tutti i tempi (nonché uno dei brani
preferiti in assoluto dal gentil sesso), la cui indubbia orecchiabilità
si sposa con un’esaltante prestazione chitarristica di Oldfield, autore
anche di un ottimo arrangiamento (geniale l’uso dell’eco sulla voce).
L’altrettanto angelica (nonché storica) voce di Jon Anderson degli Yes è chiamata ad interpretare il successivo In High Places.
Torna la Reilly per Foreign Affair, altro celebre hit-single se vogliamo un po’ troppo monocorde ma
dall’arrangiamento geniale. Penultimo brano è lo strumentale spagnoleggiante Taurus III,
ove il nostro può sia (come se ce ne fosse ancora bisogno) sfoderare
tutta la sua maestria chitarristica, sia divertirsi a sovraincidere
tracce su tracce di chitarra fino a creare in alcuni frangenti del brano
un vero e proprio muro di suono che metterà a dura prova il vostro
impianto stereo. Chiude il disco l’aspra Shadow On The Wall ennesimo hit-single interpretato stavolta da Roger Chapman (Family),
ove le sue arcigne vocals vanno a braccetto con altrettanto dure schitarrate.
All'uscita del disco segue un mini-tour, conclusosi con la celebrazione del decimo compleanno di "Tubular Bells".
Discovery(1984)
Anche il successore del fortunatissimo "Crises"
è un ottimo album, che si attiene allo standard qualitativo
Oldfieldiano e che presenta la
consueta attitudine ad accontentare sia i fan di vecchia data con la
consueta suite (posta stavolta in chiusura del disco), sia il pubblico
attratto dalle sue produzioni pop; abbastanza
palese è il tentativo di sfruttare la scia del successo del precedente album. Degni di nota lo scarso numero di musicisti presenti (oltre al nostro factotum troviamo soltanto Simon Phillips alla batteria e i vocalist Maggie Reilly e Barry Palmer) e la spiccata vena pop che caratterizza un po’ tutto il disco. Il magico timbro della Reilly è utilizzato in tre pezzi: la stupenda To France (il cui magistrale riff portante è utilizzato anche nell’altrettanto bella Talk About Your Life) e la più movimentata Crystal Gazing. Il potente timbro di Palmer ben si adatta invece a Poison Arrows (ascoltare il muro di chitarre innalzato da Oldfield a metà pezzo), la title-track (dalla trascinante linea vocale e con un guitar-solo da antologia) e alla ballad Saved By A Bell (forse l’unico pezzo leggermente sottotono del disco). Sentiremo duettare i due cantanti solo in Tricks Of The Light, il brano più tirato del disco. Ottavo e ultimo brano del disco è la gioiosa The Lake, l’immancabile suite strumentale, stavolta molto più breve del solito (12 minuti) ma dalla bellezza disarmante. In definitiva, questo disco rappresenta l’apice della creatività Oldfieldiana negli eighties prima di una fase creativa discendente.
palese è il tentativo di sfruttare la scia del successo del precedente album. Degni di nota lo scarso numero di musicisti presenti (oltre al nostro factotum troviamo soltanto Simon Phillips alla batteria e i vocalist Maggie Reilly e Barry Palmer) e la spiccata vena pop che caratterizza un po’ tutto il disco. Il magico timbro della Reilly è utilizzato in tre pezzi: la stupenda To France (il cui magistrale riff portante è utilizzato anche nell’altrettanto bella Talk About Your Life) e la più movimentata Crystal Gazing. Il potente timbro di Palmer ben si adatta invece a Poison Arrows (ascoltare il muro di chitarre innalzato da Oldfield a metà pezzo), la title-track (dalla trascinante linea vocale e con un guitar-solo da antologia) e alla ballad Saved By A Bell (forse l’unico pezzo leggermente sottotono del disco). Sentiremo duettare i due cantanti solo in Tricks Of The Light, il brano più tirato del disco. Ottavo e ultimo brano del disco è la gioiosa The Lake, l’immancabile suite strumentale, stavolta molto più breve del solito (12 minuti) ma dalla bellezza disarmante. In definitiva, questo disco rappresenta l’apice della creatività Oldfieldiana negli eighties prima di una fase creativa discendente.
The killing fields (1984)
Il secondo disco pubblicato da Oldfield nel 1984 è la colonna sonora dell'omonimo film, uscito in Italia col nome di Urla dal silenzio.
Il disco non è malvagio e mostra Oldfield alle prese con partiture
perlopiù orchestrali (mettendo molto da parte chitarre e synth), ma è
afflitto dallo stesso problema che colpisce gran parte delle altre
soundtrack in circolazione: una volta slegati dalle immagini che
dovrebbero accompagnare, gran parte dei pezzi perdono di forza e
conducono ad un ascolto svogliato. Qualche pezzo degno di nota comunque
c'è: il sound quasi industrial di Evacuation, le intense Pran's Theme 2 e Pran's Departure e le conclusive Good News e Etude
(quest'ultima con un geniale arrangiamento di flauti e marimba -
sicuramente il pezzo più Oldfieldiano del disco). Mi sento comunque di
consigliare questo disco solo ai fan più accaniti.
Il periodo 1985-86 è abbastanza tranquillo: esce la succosa antologia "The Complete Mike Oldfield" (ricca di brani usciti esclusivamente su singolo), lo stupendo video singolo Pictures In The Dark, frutto della nuova
passione di Mike per l’aspetto video della creazione musicale che fungeva da preludio per il progetto di un video album ("The Wind Chimes") da far uscire esclusivamente in Vhs e Laserdisc; infine nel 1986 esce un nuovo singolo in compagnia di Jon Anderson, Shine.
Islands (1987)
Dopo i vertici qualitativi toccati con "Discovery",
Oldfield comincia a mostrare un preoccupante calo qualitativo in questo
disco, che considero anche inferiore al tanto criticato "Earth Moving". Colpa del crescente malcontento di Mike verso la sua casa discografica (in particolare nei
confronti del patron Richard Branson)?O l’amore per la sua nuova compagna, la biondona norvegese Anita Hegerland (degno
rimpiazzo di Maggie Reilly alle vocals), ha avuto effetti nefasti sulla
sua creatività? Ai posteri l’ardua sentenza. Da salvare in questo disco
c’è ben poco: alcuni sprazzi di luce si intravedono nella suite The Wind Chimes
(brano recuperato dal video album menzionato in
precedenza che funziona “ad intermittenza”: alcuni momenti memorabili si
alternano ad altri invece loffi ed autocelebrativi), nella gelida
atmosfera di North Point e nel riff di Magic Touch.
Oltre a questo abbiamo dei 'poppettini' da FM frutto di ispirazione scarsa (When The Nights On Fire e Islands – vocals ad opera di Bonnie Tyler) o nulla (Flying Start, The Time Has Come).
Ad affossare ulteriormente il tutto abbiamo una produzione plasticosa,
veramente deludente rispetto agli standard Oldfieldiani, che purtroppo
ritroveremo anche nel disco successivo.
Earth moving (1989)
Ed eccoci arrivati al disco più criticato e odiato (o meno amato, fate
voi) in assoluto tra tutta la produzione di Oldfield. In effetti
suddetto astio non è
del tutto ingiustificato: Oldfield manda (forse volutamente) in letargo
la sua creatività per sfornare, sotto le pressioni della Virgin smaniosa
di altri hit-singles, un disco pop al 100% dove buona parte dei pezzi
risultano piatti sia dal punto di vista melodico sia per quanto riguarda
gli arrangiamenti. Fortunatamente non è tutto da buttare: la
title-track è dominata dalla splendida voce di Nikki Bentley (certo che se dovessi giudicare di questo disco solo la qualità dei vocalist il voto sarebbe stratosferico!); Innocent
si imprime nella testa del’ascoltatore al primo colpo, grazie ad una
melodia ruffiana al punto giusto e alla graziosa interpretazione della Hegerland; See The Light è il brano più energico del disco e ricorda Discovery, dall’album omonimo. Ma il brano da antologia è Blue Night: Mike Oldfield + Maggie Reilly + atmosfere soft e acustiche + una melodia dolcissima = applausi a scena aperta.
melodia ruffiana al punto giusto e alla graziosa interpretazione della Hegerland; See The Light è il brano più energico del disco e ricorda Discovery, dall’album omonimo. Ma il brano da antologia è Blue Night: Mike Oldfield + Maggie Reilly + atmosfere soft e acustiche + una melodia dolcissima = applausi a scena aperta.
Amarok (1990)
In soli due anni Oldfield passa da un estremo all’altro. Se infatti "Earth Moving" era un disco dichiaratamente commerciale, per nulla impegnato e privo di suite, "Amarok"
è senza dubbio il disco più sperimentale mai pubblicato dal nostro -
contemporaneamente un regalo ai fan di vecchia data e uno sberleffo alla
Virgin. Praticamente impossibile descrivere un album come questo:
un’unica suite di ben sessanta minuti esatti dove genio, sregolatezza e
(soprattutto) imprevedibilità vanno a braccetto, dove pacate influenze
folk inglesi (pensiamo ad esempio ad "Ommadawn") si vanno a
scontrare con travolgenti (e tecnicamente mozzafiato) parti di flamenco e
misteriose atmosfere africane che ci riportano un po’ a "Incantations";
dove l’usuale arsenale sonoro di Oldifield è arricchito da “strumenti”
come ad esempio cucchiai, bicchieri o pezzi di un modellino di un aereo,
dove il mitico Uomo Delle Caverne e Margaret Thatcher (ovviamente
imitata ad arte da un’attrice) effettuano improvvise azioni di disturbo,
dove Oldfield ci invia segnali in codice morse in cui prima lancia un
S.O.S. e poi manda letteralmente a quel paese l’ormai odiatissimo
Richard Branson, patron della Virgin, dove…
In sintesi, un capolavoro assoluto, destinato però soprattutto ai fan più attenti e vogliosi di sperimentazione, in quanto molti potrebbero essere spiazzati dalla monoliticità della proposta, nonché dalle sue “stranezze”. D’altronde lo stesso Mike sulla back-cover del disco afferma: “This record could be hazardous to the health of cloth-eared nincompoops. If you suffer from this condition, consult your Doctor immediately”. Uomo avvisato...
Heaven's open (1991)
Oldfield torna su sentieri più normali, dopo l’estremizzazione attuata nel precedente album. "Heaven’s Open"
è un disco che fu visto dal nostro come una vera e propria liberazione,
dato che era l’ultimo previsto dal contratto con la sanguisuga Virgin, e
che, pur essendo a buoni livelli compositivi, è passato ingiustamente
inosservato (come pure era accaduto per il suo magnifico predecessore "Amarok").
Per l’ultima volta (finora) ritroviamo la struttura suite + canzoni che
ci ha accompagnato per diversi album: infatti Oldfield per le
successive produzioni ritornerà alle sue origini, concentrandosi su
opere prettamente strumentali. Curioso inoltre è il fatto che il disco
sia uscito a nome “Michael Oldfield”: esistono diverse congetture per
questo fatto, ma
nessuna è mai stata di fatto confermata – Mike considera questo disco
indegno di comparire a fianco degli altri usciti a nome “Mike Oldfield”?
Oppure lo considera fin troppo personale e quindi lo ha firmato col suo
“vero” nome (Michael appunto)?
Se comunque la prima ipotesi fosse esatta, a mio avviso Mike avrebbe ben poco da vergognarsi. I brani pop (5 in tutto) sono molto ben composti ed arrangiati – niente male davvero per un disco che si dice sia stato preparato in fretta e furia -, presentano delle liriche molto autobiografiche incentrate perlopiù sulle sue frustrazioni artistiche degli ultimi anni (inequivocabili titoli come Make Make oppure Mr. Shame) e, soprattutto, sono cantati dallo stesso Oldfield con risultati non malvagi (grazie a sei mesi di lezioni di canto presso l’insegnante di illustri colleghi come Peter Gabriel o George Michael). Anche la produzione di questo disco è ottima e grazia soprattutto la schizoide suite finale, Music From The Balcony (ascoltare la batteria – suonata da sua Maestà Simon Phillips - per credere), che alterna inconfondibili sezioni atmosferiche ad improvvise esplosioni di energia.
Tubular Bells II (1992)
Oldfield
è finalmente libero dalla Virgin e, come per una sorta di scaramanzia,
decide di inaugurare il suo contratto con la WEA con il seguito del suo
più grande successo commerciale (nonché primo disco inciso per la sua
vecchia casa discografica); "Tubular Bells II" è un disco di cui Mike aveva annunciato da tempo la pubblicazione ma che, certo
del successo che avrebbe ottenuto, aveva finora tenuto nel cassetto per non dare l’ennesima soddisfazione all’odiata Virgin.
Ennesimo capolavoro di Oldfield, nonché ennesima zampata di genio: il
nostro riprende nella sua totalità (e quindi nel pieno rispetto della
sua struttura) il primo "Tubular Bells" cambiandone però
opportunamente i temi melodici, in modo tale da creare un disco che
contemporaneamente dà all’ascoltatore la sensazione di ascoltare sia un
nuovo disco che il primo "Tubular Bells" risuonato con strumenti moderni (ascoltare per credere). Pertanto di "Tubular Bells", opportunamente e magistralmente rivisitati, ritroviamo l’ipnotica intro di pianoforte (The Sentinel), il maestro di cerimonie che presenta gli strumenti (The Bell), il lento riavvio dell’ipotetica seconda parte della suite (Weightless – per me il brano più riuscito del disco assieme a Tattoo), l’ingresso della batteria e la parte vocale dell'Uomo Delle Caverne (Altered State) e così via.
Da avere, senza riserve.
The songs of the distant Earth (1995)
La Virgin, sulla scia del successo di pubblico e critica ottenuto da "Tubular Bells II", pubblica la raccolta "Elements" in versione cd singolo oppure nel box da 4 cd. Intanto Oldfield sforna un nuovo lavoro, ispirato al romanzo di Arthur C. ClarkeRacconti Di Terre Lontane
e di nuovo totalmente strumentale (composto da brani di breve lunghezza
fusi tra loro in modo da formare una lunga suite), che si rivela essere
l’ennesimo capolavoro (il
terzo in quattro dischi pubblicati nella prima metà degli anni novanta),
nonché il primo album della storia ad includere una traccia CD-Rom
interattiva. Mi riesce davvero difficile essere obiettivo quando si
tratta di parlare di questo disco, in quanto è probabilmente il mio
preferito tra tutta la discografia Oldfieldiana
nonché uno dei dischi che senza dubbi porterei sull’ipotetica isola
deserta…
Ascoltate questo disco al buio e in cuffia: Oldfield, grazie ad un
eccellente lavoro di ricerca sonora incentrato su rarefatte atmosfere
sintetiche e su ritmiche elettroniche campionate, vi immergerà in un
fantastico mondo futuristico, dove l’unica vostra g
uida sarà la sua chitarra, che sovente si innalza sulle stratificazioni costruite dai synth a raggiungere note di rara bellezza. Fatevi catturare dal magnetico inizio di Let There Be Light, avvolgetevi nel magico bozzolo di Hibernaculum, esplorate il Tubular World, e soprattutto ignorate chi bolla quest’album come banale new-age: costui ignora che fare musica significa soprattutto creare emozioni, e qui Mike riesce alla perfezione nell’intento, proprio perché è un disco che arriva direttamente al cuore dell’ascoltatore, senza volerlo stupire con virtuosismi o armonie iper-ricercate.
uida sarà la sua chitarra, che sovente si innalza sulle stratificazioni costruite dai synth a raggiungere note di rara bellezza. Fatevi catturare dal magnetico inizio di Let There Be Light, avvolgetevi nel magico bozzolo di Hibernaculum, esplorate il Tubular World, e soprattutto ignorate chi bolla quest’album come banale new-age: costui ignora che fare musica significa soprattutto creare emozioni, e qui Mike riesce alla perfezione nell’intento, proprio perché è un disco che arriva direttamente al cuore dell’ascoltatore, senza volerlo stupire con virtuosismi o armonie iper-ricercate.
Voyager (1996)
In
genere per un artista è molto difficile sfornare due capolavori
consecutivi, e Oldfield non fa eccezione: infatti dopo il sensazionale "The songs of the distand earth",
Oldfield ci offre questo album interlocutorio interamente ispirato alla
musica celtica e (in
minima parte) a quella folk spagnola - Mike si è da poco trasferito ad
Ibiza -, con solo quattro pezzi composti da Mike (mentre i restanti sei
sono rielaborazioni di pezzi tradizionali). La monotematicità è
contemporaneamente il pregio e il difetto di quest’album: pregio perché è
indubbio il fascino di queste melodie senza tempo, difetto perché il
disco è troppo ripetitivo e lascia poco spazio alle sorprese (sebbene,
beninteso, sia estremamente godibile e rilassante). Tra i pezzi di
Oldfield il migliore è senza dubbio "Voyager", con un ottimo tappeto percussivo che ricorda vagamente quelli di "Incantations",
discreti ma niente di particolare sono Celtic Rain e Wild Goose Flaps Its Wings, mentre troppo pretenzioso e monotono risulta essere il lungo brano finale Mont St. Michel (con tanto di orchestra). Tra gli altri brani, i più riusciti sono l’iniziale The Song Of The Sun, She Moves Through The Fair (a cui si sono ispirati anche i Simple Minds per la loro Belfast Child) e soprattutto la magnifica Women Of Ireland (divenuta
celebre in Italia per essere la colonna sonora di uno spot della
Peroni), brano che da solo giustifica l’acquisto del disco.
Nel 1997 abbiamo l’uscita della raccolta "XXV", che ci offre in anteprima uno stralcio dell’imminente terza parte della saga di "Tubular Bells".
Intanto Mike, durante la sua permanenza in Spagna (e con la complicità
della sua giovane nuova compagna), conduce una vita piuttosto sregolata:
frequenta i club più esclusivi e non si perde un rave-party, finché
l’abuso di alcool e ecstasy non lo riducono in condizioni psico-fisiche
precarie. Dopo l’ennesima disavventura, un incidente automobilistico che
gli comporta la sospensione della patente per un anno, abbandon
a Ibiza, fermamente deciso a non metterci più piede. L’esperienza spagnola ha comunque lasciato il segno in buona parte delle atmosfere del suo nuovo album.
a Ibiza, fermamente deciso a non metterci più piede. L’esperienza spagnola ha comunque lasciato il segno in buona parte delle atmosfere del suo nuovo album.
Tubular Bells III (1998)
Poteva un capitolo della saga di "Tubular Bells"
non prendere il massimo dei voti? Ma certo che no! Un grandissimo album
privo di tempi morti, dove Oldfield ha commesso un unico grosso errore:
la scelta del titolo. Certo, non mancano i riferimenti ai due Tubular
Bells precedenti, ma è palese il tentativo di sfruttare l’appeal del
nome per vendere qualche copia in più, mossa che per Oldfield è stata
abbastanza controproducente, in quanto buona parte della critica gli si è
ciecamente schierata contro a priori, senza valutare l’effettivo valore
musicale del disco. Il pezzo di apertura è The Source Of Secrets, terza rilettura - dopo The Sentinel - dello storico tema di apertura del primo " Tubular Bells"
innestata su una pompatissima base ritmica (e qui sicuramente le notti
di Ibiza hanno avuto la loro influenza). Un attimo di rilassamento con The Watchful Eye, e le ritmiche elettroniche ritornano (sebbene più pacate) in Jewel In The Crown, dove è la chitarra a farla da padrone. Chitarra protagonista anche nella
potentissima e metallica Outcast e nel flamenco di Serpent Dream; chiude un’ipotetica prima parte dell’opera The Inner Child, che a me ricorda molto alcune cose di Ennio Morricone.
Si riparte con la pietra dello scandalo: Man In The Rain, pericolosamente simile a Moonlight Shadow. Che dire? Le somiglianze ci sono ma, per come la vedo io, " Tubular Bells 2" sta a " Tubular Bells" come Man In The Rain sta a Moonlight Shadow: quindi Man In The Rain è una magnifica rilettura dell’originale, nonché una stupenda pop-song. Punto e basta.
Le influenze celtiche di "Voyager" ritornano nella trascinan
te The Top Of The Morning, e si tira un po’ il fiato con Moonwatch, prima della potente conclusione dell’opera con Secrets (che riprende il tema iniziale) e Far Above The Clouds che si sovrappone sinuosamente al pezzo precedente e presenta le mitiche Campane Tubolari a scandire gli ultimi istanti dell’album.
te The Top Of The Morning, e si tira un po’ il fiato con Moonwatch, prima della potente conclusione dell’opera con Secrets (che riprende il tema iniziale) e Far Above The Clouds che si sovrappone sinuosamente al pezzo precedente e presenta le mitiche Campane Tubolari a scandire gli ultimi istanti dell’album.
Imperativo: ascoltare senza pregiudizi.
Guitars (1999)
Oldfield, a tre anni di distanza da "Voyager", ripete l’esperimento dell’album “a tema” con questo "Guitars".
Il nome del disco è autoesplicativo riguardo ai suoi contenuti: dieci
tracce interamente strumentali dove la chitarra la fa da padrone (ma
limitandosi ad un ruolo di rifinitura, non aspettatevi assolutamente
virtuosismi) e le rare note di synth o sampler sono state generate da
chitarre MIDI. Come era già successo per "Voyager", il disco
risulta piacevole ma, in generale, non decolla; i suoi momenti migliori
li troviamo nei pezzi più atmosferici e malinconici come l’introduttiva Muse o Embers, mentre le sferzate elettriche di brani come ad esempio Cochise o Out Of Sight non colpiscono nel segno in quanto prive di un significativo sostegno ritmico.
Disco abbastanza trascurabile, ma che potrebbe anche piacervi.
The millennium bell (1999)
A soli sei mesi dal precedente "Guitars",
Oldfield sforna il quarto disco a presentare nel titolo la sacra parola
‘bell’, che rappresenta una celebrazione in musica dei momenti salienti
del millennio che sta per finire. Album globalmente non riuscito
appieno ma comunque godibile, che ha come unici difetti una (forse
eccessiva ma inevitabile, date le premesse del disco) frammentarietà
stilistica che potrebbe far storcere il naso ad alcuni, ed un avvio un
po’ lento: Peace On Earth e Santa Maria sono dei pezzi pseudo-spiritual davvero privi di mordente, Sunlight Shining Through Cloud e Pacha Mama
scivolano via senza lasciare troppe tracce. Le cose migliorano di molto
col trittico segunte, che propone un’alternanza di stili molto
singolare. Si parte con l’azzeccata The Doge’s Palace, ovvero il Rondò Veneziano in versione 2000; seguono le delicate atmosfere orchestrali di Lake Constance e la strana ma efficace Mastermind. Ritornano le atmosfere orchestrali (con stavolta il pianoforte a farla da padrone) in Broad Sunlit Uplands, mentre con Liberation sulle prime sembra di ascoltare Enya
ma poi ci pensano un efficace tappeto percussivo e (soprattutto) una
magica chitarra ad imprimere il marchio Oldfield sul pezzo. Penultimo
brano è la marcia trionfale di Amber Light, mentre a chiudere le
ostilità ci pensa l’ottima title-track, collage di vari brani del disco
inframezzati da parti strumentali su
un’inusuale (ma efficace) ritmica dance.
Tr3s lunas (2002)
Oldfield
non poteva inaugurare in maniera migliore il nuovo millennio con questo
doppio cd (l’album vero e proprio ed un videogame in 3D), che può
essere concettualmente considerato come il successore di "The Songs Of Distant Earth":
stesse semplici ma efficaci melodie, stesso clima evocativo, prevalenza
schiacciante della componente strumentale rispetto a quella vocale.
Caratteristica comune a quasi tutti i pezzi è l’uso di ritmiche
ipnotiche
(tipiche della musica chill-out, una corrente musicale moderna di cui
Oldfield è considerato uno dei precursori) che, unite alle sapienti
linee di synth e di chitarra di Oldfield, creano rilassanti atmosfere.
Il disco è qualitativamente piuttosto omogeneo (leggermente meno belle
rispetto al resto sono il singolo
cantato To Be Free e Thou Art In Heaven), propone melodie orecchiabilissime ma non
stucchevoli ed ha i suoi momenti migliori nel delicato affresco pianistico di Daydream, in Return
To The Origin (con degli eccezionali ricami d’organo), e in Turtle Island e la title-track (dove la chitarra acustica detta legge).
Un grande disco sotto tutti i punti di vista.
Tubular Bells 2003 (2003)
Ed eccoci di fronte a quelle operazioni che fanno innervosire anche il più incallito fan. Ricorre il trentennale del primo Tubular Bells...
ok, festeggiamolo e magari cogliamo l'occasione per recuperare qualche
quattrino extra... in che modo? Risuonando pari pari il primo Tubular Bells
e vendendolo a prezzo pieno!
A mio avviso, quando si valuta il valore di un disco bisogna considerare
il contesto storico in cui questo è stato prodotto. E il primo TB, ai
suoi tempi, è stato davvero unico per struttura, sonorità e originalità e
rappresenta una pietra miliare della musica contemporanea. Ma
riproporlo oggi sforzandosi di riprodurre il più possibile le sonorità
dell'originale, generando effettivamente un doppione che non ha davvero
senso di esistere, che senso ha? TB2003 non è né bello né brutto. E' solo un disco inutile, il che forse è anche peggio...
Light + Shade (2005)
Oldfield ritorna con un disco doppio sul finire del 2005. Poco più di 80 minuti di musica su due cd incentrati su due cd: Light, che presenta maggiormente sonorità acustiche e lievi spruzzate di tecnologia, e Shade dove invece l'elettronica la fa da padrone. Sostanzialmente il disco può essere visto come un prosieguo di Tr3s Lunas
(e la recensione potrebbe terminare già qui: chi ha apprezzato quel
disco, amerà anche questo), con la differenza che qui troviamo anche una
cover, nonché qualche brano "cantato": le virgolette sono d'obbligo, in
quanto le voci che si ascoltano sono opera di vocaloid (vale a dire una
sorta di sintetizzatori che riproducono il canto umano),programmati
dallo stesso Oldfield, e devo dire che il risultato (sebbene siamo
decisamente lontani dai fasti di una Maggie Reilly in carne ed
ossa) non è malvagio nella maggior parte dei casi. Inoltre, diversi
brani non sono propriamente nuovi, in quanto facevano parte della
colonna sonora del videogame MusicVR allegato a Tr3s Lunas ed
erano già stati proposti in diversi bootleg facilmente reperibili sulla
rete.
Il mio giudizio è positivo, ma non con diverse riserve. Innanzitutto, il
consueto problema dei dischi doppi: è difficilissimo riuscire a
mantenersi costante qualitativamente per tutto il running time
dell'opera, e spesso viene da pensare che riducendone un pò la durata,
togliendo di mezzo qualche brano decisamente da dimenticare e portandosi
ad un solo cd, il voto globale avrebbe potuto essere molto più alto.
Quali sono questi brani? Indubbiamente l'insopportabile corale per voci
digitali The Gate, e Romance, la pessima cover in chiave
techno-trance di 'Giochi Proibiti', probabilmente la cosa più brutta mai
fatta da Oldfield in tanti anni di onorata carriera (e dire che gli
esperimenti techno di The Millennium Bell non mi erano poi dispiaciuti
poi tanto). Inoltre, qualche altro brano di "Light" si lascia ascoltare
volentieri ma non lascia particolari tracce nell'ascoltatore (ad esempio
Rocky, Sunset o Our Father che sembra quasi uno scarto da Voyager). Il disco comunque dispensa diverse perle: ad esempio la suite First Steps che rivisita il tema della title-track di Tr3s Lunas, la magnetica Tears Of An Angel dove Oldfield ci delizia con uno splendido assolo o il ritmo terzinato dominato dall'organo di Ringscape,
ma sostanzialmente è tutto l'album a scorrere piacevolmente (salvo i
due 'intoppi' prima menzionati), coadiuvato come al solito dalla solita
cura dei suoni e dalla perizia del nostro con la chitarra elettrica, una
presenza quasi costante portatrice di ottime ritmiche e assoli.
Il
punto fondamentale è però che mi viene da pensare che stiamo parlando di
questo album solo perché c'è scritto 'Mike Oldfield' in copertina: in
pratica con la tecnologia attuale un disco come questo potrebbe farlo
quasi chiunque. Basta dotarsi di un bel pc con del software musicale: si
elabora qualche linea melodica interessante, ci si appiccica sotto una
piacevole base ritmica campionata e il gioco è fatto. Ovviamente la mia è
un'analisi decisamente semplicistica, ma il punto è che ormai da troppo
tempo Mike non ha voglia di stupire il suo pubblico, i suoi tocchi di
genio sono sempre più rarefatti e si accontenta di scodellare dischi
piacevoli e nulla più. Quello che ci vorrebbe per destarlo un pò dal suo
torpore è lavorare nuovamente con una band, ma è pura utopia: ormai
Oldfield si è avviato verso una piacevole vecchiaia, e tutto sommato,
direi che se l'è meritata...
Mirrormaze
gennaio 2003
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