I Deadwood Forest sono un quartetto americano proveniente dal Texas, più precisamente da Baytown, nella periferia di Houston. Si è parlato di loro nell'ambiente progressivo qualche anno fa, quando è uscito un apprezzato album, dal titolo Mellodrammatic, in base al quale qualcuno ha parlato di “Anglagard americani”. Eppure questo simile accostamento non è del tutto corretto, infatti vi invito a non pensare ad una copia carbone della formazione svedese che ha colpito tanti progster nei primi anni della scorsa decade, poiché, pur presentando qualche somiglianza nell'utilizzo di alcune sonorità, i Deadwood Forest in realtà non hanno mai cercato una pedissequa imitazione.
Ma andiamo con ordine: Ryan Guidry (voce e chitarra), Kurt Coburn (basso), Mitch Mignano (tastiere) e Andy McWilliams (batteria), nati tutti tra il 1977 ed il 1979, sono cresciuti insieme frequentando la stessa high school ed iniziando a suonare intorno al 1994. Dal 1996 il gruppo possiede un mellotron, strumento molto amato dalla band ed utilizzato in maniera tutt'altro che parsimoniosa.Nel 1997 registrano un album intitolato semplicemente Deadwood Forest,
che non ha mai visto una pubblicazione ufficiale e che viene venduto su
cd-r solo tramite il loro sito. Si tratta di un lavoro intrigante,
formato da 14 composizioni non particolarmente complesse, ma ben
costruite e sviluppate. Il sound è gradevole ed orecchiabile, visto che
si privilegiano fini ballate e trame elettroacustiche con un orientamento
non distante da certo folk-rock di stampo americano. I musicisti
mostrano comunque buone idee attraverso raffinati arrangiamenti ed
alcuni bei momenti strumentali; in particolare è il chitarrista a
mettersi in evidenza, sia negli spunti elettrici che in quelli acustici,
mentre le tastiere assumono un ruolo maggiormente di accompagnamento.
Solo la conclusiva Vital Commentary offre spunti più
marcatamente progressivi, visto che nei suoi 14 minuti è aperta da un
inizio melodico articolato tra voce, chitarra ritmica e basso e che si
sviluppa poi, in maniera disinvolta, attraverso cambi di tempo e di
umore e discreti spunti strumentali e solistici, pur mantenendo sempre
un sound molto “americano”. L'album, seppur non miracoloso, si rivela
decisamente apprezzabile e mette in mostra dei musicisti con un livello
di maturità già elevato (tenendo conto della loro giovanissima età) e
consci dei propri mezzi; eppure il prosieguo della loro carriera li
porterà in territori ben diversi.
I Deadwood Forest si danno da
fare anche nell'attività live e fino al 1998 continuano a suonare a
Houston e dintorni cimentandosi in una musica psichedelica ed erede, in
parte, delle mitiche band di southern rock degli anni '70. Ma proprio il
1998 segna un momento di stasi, visto che tre membri della band si
trasferiscono ad Austin per gli studi universitari. Fino al giugno del
'99, perciò, la band non riesce ad effettuare concerti, ma comincia a
concentrarsi sulla creazione del materiale che comporrà il primo lavoro
vero e proprio. Infatti, la label Shroom Records, con i suoi responsabili Greg Putman e Rich Patz,
si era mostrata molto interessata a produrre un disco dei Deadwood
Forest. Tuttavia, non tutto va per il verso giusto, tant'è vero che alla
fine i musicisti si vedranno costretti a pagare essi stessi l'intera
realizzazione del disco. Solo 1000 copie ne vengono stampate dalla
Shroom a causa di problemi contrattuali sorti quasi immediatamente che
spingono la band ad allontanarsi dalla casa discografica. Fatto sta, che
nell'estate del '99 allo studio Stardog di Mike Castoro, situato ad Austin, guidati dall'esperta mano di Mattias Olsson (batterista svedese che ha suonato con Anglagard, White Willow
e altre band scandinave) alla produzione, i Deadwood Forest registrano
il cd. Olsson aveva ascoltato un loro demo la primavera precedente ed
essendone rimasto favorevolmente impressionato aveva accettato di buon
grado la collaborazione, convincendo anche i musicisti ad effettuare
vari cambiamenti alle partiture. Mattias, dovendo tornare a Stoccolma,
non si può trattenere a lungo e a causa di questa situazione i musicisti
si impegnano in un lavoro estenuante, visto che si ritrovano a provare
per venti giorni e tredici ore al giorno in un appartamento
(ribattezzato “Sweatshop”, “negozio di sudore”) privo
di aria condizionata nel periodo più caldo dell'estate. Ma la celerità
con cui il gruppo è costretto a provare provoca non pochi disguidi: le
sessions diventano ben presto un incubo, Mitch e Mattias discutono
spesso e rompono per alcuni mesi quella che sembrava una bella amicizia.
Finite le registrazioni ci sono sei settimane di pausa, dopo le quali,
col ritorno di Mattias ad Austin si può procedere al missaggio di Mellodramatic che
viene completato in cinque giorni. Eppure i problemi non sono finiti:
andando a riascoltare il risultato si nota che la masterizzazione ha
lasciato tutte le tracce tranne due in versione mono invece che stereo e
a rincarare la dose si aggiungono degli svarioni notevoli all'artwork
che risulta inutilizzabile. Scaduto il contratto con la Shroom
nell'agosto del 2000 la band ha ristampato il lavoro correggendo gli
errori grafici e, con l'aiuto di Greg Putman, è riuscita a distribuire
il disco senza l'apporto dell'etichetta.
Ma
andiamo ad esaminare un po' i contenuti di questo lavoro che, se non
altro, è stato abbastanza apprezzato da critica e appassionati. L'opener dell'album, The pioneer, è da brivido: l'introduzione drammatica di mellotron sfocia ben presto in una ballad semiacustica
che prosegue tra cambi di tempo, dissonanze e sviluppi che cominciano a
ricordare gli Anglagard. Quelle che vengono solitamente definite come
“cascate di mellotron” rappresenteranno una peculiarità importante di
questo lavoro. Dopo un elegante brano strumentale senza titolo, guidato
dal romanticismo delle tastiere, è la volta di OCD, pezzo
aperto da un cantato un po' stralunato su delicati arpeggi di chitarra.
L'entrata della sezione ritmica movimenta un po' le cose e basso e
batteria vanno a favorire l'alternanza tra fasi molto calme ed altre più
accese con una dinamica assolutamente indovinata. A questo brano si
legano quasi senza soluzione di continuità i sette minuti e mezzo di King of the skies,
molto variegato nei continui avvicendamenti tra pacate melodie, quasi
folk, dettate dalla chitarra acustica ed un sound più robusto e più
tipicamente americano, prima di un finale introdotto nuovamente dal
mellotron che va a ricordare certi passaggi di Epilog con un
atmosfera, però, meno venata di tristezza. Ancora un inizio acustico e
delicato per la bellissima composizione strumentale The city in the sea,
che dopo l'ottima ed elegante introduzione chitarristica vira verso
momenti d'insieme di rara bellezza, con cambi di tempo e di atmosfera
che rimandano al più tradizionale prog sinfonico, eseguito però con
piglio decisamente moderno. E' poi il turno di Dry, raffinata ballata chitarristica, con bei tappeti di tastiere, un mellotron arioso che rimanda ai seventies e piacevoli melodie vocali; il tutto articolato in un andamento piuttosto malinconico. Stolen smile e la strumentale The ultraviolence
sono altre due composizioni che si avvicinano agli Anglagard, con il
loro sviluppo fatto di repentini sconvolgimenti ritmici e pregno di
drammaticità, e sono inframmezzate da un'altra brevissima traccia
strumentale senza titolo che offre belle melodie di chitarra e tastiere
ed un intervento di ritmi elettronici per nulla fastidiosi. A chiudere
il cd c'è Departure, canzone di due minuti e mezzo aperta da chitarra acustica e voce nello stile dei folksingers prima di terminare con un bel assolo tastieristico. Mellodramatic risulta così un album estremamente positivo che lancia i Deadwood Forest tra le luminose speranze del progressive moderno.
Dopo
la realizzazione dell'album si nota un nuovo periodo di stasi, visto
che i componenti sono impegnati a percorrere strade diverse. Nonostante
ciò, una rimpatriata riesce nel 2001, quando si esibiscono al primo
Progwest, un festival di rock progressivo che si tiene in California. In
seguito, mentre Mitch è impegnato nel completamento degli studi, gli
altri rimangono a Houston per circa un anno suonando settimanalmente con
l'amico Brandon Hancock col nome di The Scattered Pages, orientandosi maggiormente su un pop sperimentale à la Flaming Lips.
Acquistato uno studio di registrazione per incidere del materiale con questa nuova band, viene realizzato l'album Meet the americant, pubblicato dalla One's Own Music nel 2003. Si tratta di una bella prova, distante da Mellodramatic,
ma che mostra buone idee nel suo orientamento verso un pop molto
raffinato con 10 canzoni ben costruite, tramite le quali emergono le
ottime capacità compositive dei musicisti. Ad aprire il cd troviamo Americant,
che unisce elettronica, pop, orecchiabili melodie vocali e tastiere che
creano un encomiabile accompagnamento orchestrale. Nel prosieguo
possiamo ascoltare soprattutto delle eleganti ballate semiacustiche
quali Western fashion, It's getting nasty, My negative, You've gone to my head. Voce filtrata all'inizio, melodie di stampo americano, un refrain accattivante, un bel guitar-solo ed una certa malinconia sono invece le caratteristiche di Rachel. Curioso, quasi un ideale connubio tra country e pop britannico, l'andamento di Jack, mentre Virginia Woolf può ricordare certe esperienze del rock della West Coast degli anni '70 e The unthinkable si mostra a cavallo tra Radiohead e atmosfere jazzy. Discotheque,
infine, è una singolare composizione che porta a termine il lavoro con
una sintesi di quanto ascoltato finora ed una dinamica particolare:
dall'elegante inizio con violino e delicate armonie vocali si passa ad
un rock più tirato, a ritmi elettronici, a refrain quasi ossessivi, a
chitarre veloci, per concludersi nuovamente con violino e voce, che si
ascoltano però filtrati ed in lontananza.
Ma l'attesa adesso è
tutta per Mitch: appena laureato i Deadwood Forest torneranno ad essere
una priorità e potremo sperare che questi musicisti sappiano regalarci
nuove emozioni attraverso un degno successore di Mellodramatic.
Peppe
Maggio 2005
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