Rush

La storia di una delle più grandi rock-band di tutti i tempi comincia nella primavera del 1968 in Canada, precisamente a Willowdale, Toronto. Era il periodo in cui erano in voga band come Cream, Who e Yardbirds, e tre ragazzi adolescenti (Jeff Jones - basso e voce, John Rutsey - batteria e cori, Alex Lifeson - chitarra e cori) nel tentativo di imitarli formarono il gruppo Projection. Il vero nome di Lifeson è Alex Zivojinovich, decisamente ostico da scrivere e da pronunciare: per risolvere questo problema Alex scelse come nome d'arte la traduzione inglese del suo cognome slavo (Lifeson appunto).
Qualche mese dopo, con la dipartita di Jones i Projection terminarono la loro brevissima carriera, ma il suo sostituto fu subito individuato nel settembre del '68: Gary Lee Weinrib, fortemente influenzato da Jack Bruce dei Cream, che sceglie come nome d'arte Geddy Lee (un'affettuosa presa in giro della madre: quando questa chiamava suo figlio, a causa del suo forte accento Yiddish, sembrava pronunciasse "Geddy" anzichè "Gary"). Il fratello di Rutsey sceglie il nome Rush per la nuova band, la quale, oltre al consueto discorso cover, si dedica anche alla composizione di pezzi propri: il primo brano composto da Lee e Lifeson è il blues "Losing Again".

Un'altra evoluzione nella line-up si ha nel gennaio del '69, quando Lindy Young (fratello della ragazza di Geddy) si unisce al gruppo come tastierista e seconda chitarra: sottoforma di quartetto, i Rush fanno il loro debutto presso un locale chiamato "the Coff-In" esibendosi in cover di Traffic, Willie Dixon, Ten Years After. Ma non finisce qui: nel maggio del '69 Geddy Lee lascia i Rush (che si ribattezzano Hadrian) sostituito da Joe Perna, per formare gli Ogilvie (in seguito chiamati Judd), ed è più tardi raggiunto da Lindy Young; la dipartita di questi dagli Hadrian causa il loro scioglimento, ma quando, nel settembre del '69, anche i Judd si sciolgono, Rutsey, Lifeson e Lee riformano i Rush. Siamo al 1970: i Rush si sono riformati nella forma originale di trio, legati stavolta dall'amore per il pesante blues rock alla Cream, Jimi Hendrix, Who e Led Zeppelin. Negli spettacoli del trio, i successi di queste bands sono reinterpretati e proposte insieme a nuove canzoni scritte dalla band.

Nel 1972, il terzetto (divenuto, solo per pochi mesi, quartetto nel '71 con l'aggiunta del secondo chitarrista Mitch Bossi) ormai si è costruito una buona fama come gruppo blues-rock, ma Geddy rimane stregato dall'ondata progressive inglese (in particolare dagli Yes) e comincia a pensare di incorporare nella sua musica delle parti reminescenti di tale stile. Nel 1973 i Rush decidono di far uscire un singolo come "antipasto" del loro primo album: si tratta della cover di Buddy Holly "Not Fade Away", che era accompagnata sulla facciata B da un pezzo di Lee e Rutsey intitolato "You Can't Fight It". Le case discografiche canadesi comunque si mostrano totalmente disinteressate alla band e questa, per poter far uscire il disco, è costretta a formare un'etichetta personale che si chiamerà Moon Records. Il singolo fu finalmente stampato, ma fu messo in circolazione solo in Toronto e in altre parti del Canada, e non fu un grande successo, contro le aspettative della band; ad ogni modo, il gruppo completò la lavorazione del suo primo album (sotto la guida del produttore Terry Brown) e lo pubblicò.

Discografia

RUSH (1974)

Il disco d'esordio dei Rush è decisamente impersonale, molto legato alle influenze zeppeliniane, ma non è assolutamente da buttare: contiene una manciata di canzoni di livello discreto, tra le quali ricordiamo Finding My Way, In The Mood e Working Man (quest'ultima, quando venne trasmessa per la prima volta in radio, venne scambiata da molti per un nuovo singolo dei Led Zeppelin), ma che non lasciano trasparire quasi per nulla le futura evoluzione verso il progressive che prenderà pian piano forma. Un disco, quindi, consigliato solo ai fan più orientati verso l'hard rock. 
 
La band acquista pian piano popolarità e si imbarca per un tour in patria come opener dei New York Dolls, ma i problemi sono dietro l'angolo: il batterista Rutsey abbandona. I motivi che lo spingono sono diversi: divergenze con Lee e Lifeson riguardo la futura direzione musicale (i sono due orientati verso un genere più complesso, mentre Rutsey voleva continuare a fare un rock semplice e lineare), problemi di diabete che gli impedivano di intraprendere lunghi tour, nonchè contrasti col manager Danniels. Così, all'indomani di un tour negli States, i Rush sono costretti a fare audizioni per un nuovo batterista. Il secondo giorno si presentò a loro Neil Peart con i suoi tamburi riposti in sacchi dei rifiuti. Dopo aver abbandonato il liceo, questi era appena tornato dall'Inghilterra (obbligato da una ferita alla mano) dove cercava una band a cui unirsi non avendo avuto fortuna nell'area di Toronto. Neal imparo' il materiale velocemente aggiungendovi un arrangiamento aggressivo e dinamico, e si fece notare anche per una grande abilità nello scrivere i testi nonchè per una forte passione per l'hard rock e il progressive. La line-up definita dei Rush era ormai formata; la band fa la sua prima apparizione americana a Pittsburgh, dove aprirà per gli Uriah Heep e Manfred Mann.

FLY BY NIGHT (1975)

L'ingresso di Peart in formazione (batterista decisamente migliore tecnicamente di Rutsey, nonchè come anticipato abile paroliere) porta sicuramente a qualche cambiamento, anche se la band ancora non ha molto di nuovo da offrire. Gran parte dei brani del nuovo disco ripercorrono le orme del precedente lavoro, quindi per lo più abbiamo un hard-rock senza infamia e senza lode. Comunque qualche brano da segnalare c'è: Anthem è un gran pel pezzo (frutto della prima jam dei Rush col neo-arrivato Peart), potente e veloce, caratterizzato da un bel riff iniziale in 7/8 e dalla voce di Lee che tocca delle vette proibitive, e By-Tor And The Snow Dog (titolo ispirato dai cani di Danniels, un pastore tedesco ed un piccolo cane bianco) ci mostra la voglia di osare dei nostri, con un brano di quasi 10 minuti sicuramente non memorabile ma che ci offre delle buoni parti strumentali (ascoltare Peart in assolo è sempre una gioia per le orecchie). Con quest'album i Rush Vincono lo Juno Award come Gruppo piu' promettente (il Grammy canadese), il loro primo riconoscimento e fanno da supporto a band come Aerosmith e Kiss.

CARESS OF STEEL (1975)

Questo disco è uno dei lavori più controversi del trio canadese: ha diviso critica e pubblico, suscitando dovunque ammirazione e dissensi, e lo stesso gruppo non lo considera un'opera riuscita appieno. Al di là del giudizio sul suo valore artistico, Caress Of Steel è un disco che comunque merita rispetto, essendo il punto di partenza di un'evoluzione che porterà i Rush dal non originale hard-rock degli inizi verso il progressive e una serie di album-capolavoro. Come negli album precedenti, la produzione non è esattamente il massimo, con un sound ancora un pò grezzo e ancorato al classico tridente chitarra-basso-batteria; guardando però la track-list ci accorgiamo della presenza nel disco di due suite, una cosa abbastanza sorprendente per la band nonchè un chiaro segnale di volontà di progredire. La prima, The Necromancer, è molto buona: l'inizio è d'atmosfera (molto pink-floydiano), per poi passare ad un crescendo hard dominato dalle scorribande chitarristiche di Lifeson che ci conducono verso una conclusione acustica e delicata; The Fountain of Lamneth invece non colpisce appieno l'ascoltatore, essendo a mio avviso troppo frammentaria, contorta e piena di momenti-riempitivo. Gli altri brani proposti sono l'opener Bastille Day, un pezzo hard rock molto immediato (sicuramente il brano più riuscito del disco), I Think I'm Going Bald (un mero riempitivo rock-blues) e la gradevole zeppeliniana Lakeside Park.

2112 (1976)

Nonostante le deludenti vendite di Caress Of Steel nonchè il poco felice momento sul piano creativo, i Rush giungono al loro quarto disco. Quasi incuranti delle critiche subite per le suite del precedente disco, i nostri propongono nuovamente un brano di 20 minuti con la title-track; stavolta però il risultato è decisamente diverso. 2112 è infatti una pietra miliare del prog: una suite articolata in sette parti, che parte con la potenza ed estrema epicità di Overture, la quale ci introduce all'hard bruciante di The Temples of Syrinx, e da qui, attraversando parti variegatissime, si giunge al tempestoso Grand Finale; interessante anche il testo della suite, una sorta di racconto di fantascienza che narra di un futuro dominato dai sacerdoti dei templi di Syrinx. Questi hanno creato un mondo in cui tutti sono felici e massificati, ma un giorno un giovane si imbatte in una vecchia chitarra ed impara a suonarla. Ignaro di avere tra le mani un oggetto che potrebbe rivoluzionare l'equilibrio creato dai sacerdoti, il giovane mostra loro la chitarra e questi provvedono subito a distruggerla. Dopo l'esperienza con i sacerdoti, il giovane ha una visione in cui un oracolo gli parla dell'antica razza che creò la chitarra e lasciò il pianeta molti anni prima con la promessa di tornare a riscattare ciò che le apparteneva. La visione (e la suite) termina con la vittoria e il ritorno degli antichi. Anche il resto dell'album si mantiene su elevati livelli qualitativi: cito ad esempio le atmosfere orientaleggianti di A Passage To Bangkok, la particolarissima Twilight Zone e la dolce ballad Tears, con tanto di mellotron suonato da Hugh Syme (realizzatore della parte grafica del disco, nonchè creatore del famoso logo della band con l'uomo nudo racchiuso in una stella a cinque punte) e con Lee che abbandona per un attimo le sue altissime tonalità per un cantato più morbido e rilassato. L'album balza in America al n°61 delle classifiche però non viene preso molto in considerazione da parte dei critici, intanto però Caress Of Steel e 2112 diventano dischi d'oro in Canada.

ALL THE WORLD'S A STAGE (1976)

Si tratta di un doppio live registrato durante tre date sold out a Toronto, che ben presto sale al n°40 in USA sulle classifiche di Billboard. Il disco immortala il crescente successo della band ed include tutte le migliori canzoni tratte dai primi quattro album; provvede inoltre a chiude
re un ciclo nella carriera del gruppo. Infatti da qui in poi i Rush decideranno di melocidizzare ulteriormente il proprio sound, mantenendo comunque intatta tutta la loro epicità.

 

 

A FAREWELL TO KINGS (1977)

I Rush decisero di registrare questo album in un castello nel Galles dopo le ultime date del tour europeo. La caratteristica di fondo del disco è un largo uso di sintetizzatori e di svariati tipi di percussioni, al fine chiaramente di creare ambienti sonori sempre più particolari e variegati, nonchè un suono meno hard-rock che lascia molto spazio a momenti acustici ed atmosferici. L’album si apre alla grande, con una meravigliosa intro di chitarra classica affiancata da synth e percussioni, preludio alla bellissima title track che ci riporta alle sonorità di 2112. La seconda traccia Xanadu è un vero e proprio capolavoro progressive, dieci minuti di momenti hard-rock alternati a fasi atmosferiche dominate dal synth, in cui la band riesce a dar sfoggio di una tecnica superlativa senza mai mettere in secondo piano il fattore emotivo. Dopo questi due pezzi da novanta, si tira un pò il fiato con tre pezzi brevi e lineari; uno di questi è Closer To The Heart, forse il brano più famoso dei Rush nonchè presenza fissa nei concerti e nei successivi dischi dal vivo, mentre gli altri due Madrigal e Cinderella Man sono molto gradevoli ma non risaltano appieno, a causa del "peso" maggiore degli altri brani contenuti nel disco. Si chiude con Cygnus X-1, altro brano di dieci minuti di bellezza disarmante: un'intro oscura, una serie di stacchi all'unisono chitarra/basso/batteria, una valanga di riff oscuri ed azzeccatissimi, sicuramente uno dei brani più duri mai incisi dai nostri. In definitiva questo è un album spettacolare, degno erede del seminale 2112 e probabilmente uno dei picchi di massima creatività della band.

Per la registrazione del nuovo album la band parte per l'Inghilterra e incomincia a registrare il nuovo album nel castello dei Rockfield Studios nel Galles, A Farewell to kings esce nel Settembre del 1977, e sale al n° 33 in USA e al n° 22 in UK, mentre il singolo Closer to the Heart sale al n
° 77 in USA e l'anno successivo al n° 36 in Inghilterra; il gruppo suona nel Regno Unito e un pò per L'Europa, intanto circolano voci sgradevoli contro la band, che viene accusata di criptofascismo, satanismo e amenità del genere; sempre in questo periodo esce la raccolta Archives che contiene i loro primi tre album e di ritorno in patria ricevono il premio come "migliore band" ai Juno Awards.

HEMISPHERES (1978)

La svolta attuata dai Rush col disco precedente frutta un album ancora più complesso e tecnico del precedente. Il primo brano presentato è la title track, maestosa suite di quasi 20 minuti, che è il continuo della storia (dal punto di vista dei testi ma se vogliamo anche per le sonorità) di Cygnus X-1 del precedente album; il brano è diviso in sei parti e presenta, come ogni suite che si rispetti, svariati temi musicali (elettrici, acustici e sinfonici) che scorrono via che è un piacere e non portano mai un momento di noia all'ascoltatore. Circumstances è un brano di matrice hard rock gobilissimo e ben fatto, ma che comunque rappresenta l'episodio più trascurabile dell'intero disco; si conclude con due brani simbolo dei Rush: The Trees e La Villa Strangiato. Il primo è comincia solo con la voce ed un bell'arpeggio di chitarra acustica, e poi si trasforma in un un'energico e melodico rock (molto grazioso il suo intermezzo strumentale con synth e percussioni), mentre il secondo è uno strumentale di quasi dieci minuti (un "esercizio di auto-compiacimento" secondo gli stessi autori) assolutamente da ascoltare, che mette in mostra le doti tecniche dei nostri ma contemporaneamente offre un continuo cambio di atmosfere e di melodie. Possiamo dire che con Hemispheres la band torna un pò all’approccio complesso di ‘2112’, sebbene per poco in quanto i Rush con i lavori successivi sceglieranno definitivamente un approccio semplice e melodico (ma sempre con risultati comunque eccellenti), forse a causa delle critiche non sempre positive ricevute per questo disco. 
 
Nel Gennaio del 1979 il governo Canadese nomina i Rush ambasciatori della Musica; nell'Aprile dello stesso anno partono per un ennesimo tour europeo e partecipano al Pink Pop Festival assieme ai Police, Peter Tosh e Dire Straits.

PERMANENT WAVES (1980)

Il successore di Hemispheres porta ai Rush un livello di popolarità sempre maggiore. Le sonorità si mantengono pressappoco le stesse, ma è innegabile la tendenza a comporre brani più immediati: ciò si rispecchia nella durata dei brani (solo l'ottima mini-suite in tre parti Natural Science sfiora i dieci minuti), nonchè nei testi di Peart che abbandonano temi epici e fantasy in favore di tematiche più "attuali" come comunicazione, liberta', ricordi e tecnologia. Il riuscito singolo The Spirit Of Radio (dove i nostri sembrano imitare una stazione radio che assorbe rock, pop e reggae insieme) è programmatissimo alle radio e permette a Permanent Waves di raggiungere il n. 4 negli USA ed il n. 3 in UK; Freewill e Entre Nous sono altri pezzi rock gradevoli e immediati e Different Strings è una bellissima e delicata ballata per piano e chitarra acustica. Menzione a parte per Jacob's Ladder che, con il suo alternarsi tra momenti minacciosi e sprazzi di luce pennellati dal sintetizzatore e dalla voce filtrata di Lee, è a mio avviso il vero vertice del disco. Sicuramente uno dei loro lavori migliori di sempre, un giusto connubio tra tecnica ed imediatezza.
 
Con questo disco i Rush diventano un vero e proprio fenomeno di costume, con ottime vendite e un gran numero di copertine e riconoscimenti. Addirittura, i fans di Detroit (che hanno atteso a temperature glaciali) distruggono le vetrate di sei biglietterie mentre aspettano di comprare i tagliandi d'ingresso; occorrono piu' di venti poliziotti per ricondurli all'ordine, fortunatamente i 20.029 biglietti vengono venduti e nessuno si fa male seriamente, anche se qualcuno viene calpestato. Tour di enorme successo in Inghilterra, stavolta con 5 sold-out all'Hammersmith Odeon di Londra che furono registrati per il progetto di un album live da pubblicare durante l'inverno; fortunatamente, Terry Brown sostiene che i Rush si trovano in un momento estremamente creativo, cosi' incoraggia loro a fare un altro album in studio.

MOVING PICTURES (1980)

Quasi da tutti (non dal sottoscritto, però!) riconosciuto come il capolavoro assoluto dei Rush, annovera sette brani quasi tutti di altissimo livello nonchè alcuni tra i più grandi classici del gruppo. Menzione d'onore ovviamente per due pezzi celeberrimi come Tom Sawyer e YYZ. Il primo è da molti considerato come la quintessenza dei Rush: vocals altissime per Lee, i tocchi da maestro di Peart, un testo assolutamente non banale ma soprattutto un pezzo che (seppur confinato in 4 minuti e mezzo) è una continua sorpresa, così ricco di cambi stilistici e riff. Il secondo è uno strumentale favoloso, godibilissimo, che non perde mai di vista la melodia e nel contempo dà ai nostri di mostrare (seppur abbastanza con discrezione) le loro enormi capacità tecniche; inutile aggiungere che tale brano è stato una sicura fonte di ispirazione per molte band di prog-metal. Red Barchetta e Limelight seguono nella scaletta del disco rispettivamente Tom Sawyer e YYZ: entrambi sono pezzi molto frizzanti e godibili, ma che mantengono comunque una certa raffinatezza di fondo nonchè un gusto non comune per gli arrangiamenti (soprattutto per gli eccellenti stacchi di batteria) e per inserti di tempi dispari assolutamente mai forzati o fastidiosi; sulle stesse coordinate dei succitati due pezzi, anche se con in più un forte innesto di synth, si muove anche The Camera Eye, il pezzo più lungo del disco. Un deciso cambio di ritmo e di sonorità si ha con la successiva Witch Hunt, dove un lento tempo di batteria accompagna un ipnotico riff (eseguito prima dalla chitarra e poi dalle tastiere) che crea una particolarissima atmosfera - il mio pezzo preferito del disco. L'unico brano un pò sottotono è la conclusiva Vital Signs, che ricalca molto lo stile dei Police: gradevole ma nulla più. Qualche curiosità: Moving Pictures e' il primo album dei Rush mixato e masterizzato digitalmente, e la band fu obbligata a finanziare la produzione dell'immagine di copertina (9.000 dollari) scattata al Parlamento, al Queen Victoria Park, a causa di un problema di budget.

EXIT...STAGE LEFT (1981)

La band chiude il tour per Moving Pictures dopo 79 concerti, 905.000 spettatori, piu' di 4 milioni di dollari di bottino, e decide di realizzare un nuovo live album estraendo tracce da oltre 50 registrazioni. La tracklist ovviamente si concentra sulle ultime prove in studio (gli unici estratti dai primi album sono A Passage to Bangkok e Beneath, Between and Behind) ed assembla un insieme formidabile di pezzi: un disco consigliatissimo per iniziare a conoscere la band. 40.000 copie di ESL sono prenotate prima dell'uscita in Gran Bretagna, e Geddy si occupa della produzione per il film-concerto in uscita, girato al Montreal Forum. 
 
Nuovamente, dopo quattro dischi da studio, si chiude un'era musicale per i Rush e se ne riapre un'altra, questa volta segnata da un forte uso dell'elettronica e dei sintetizzatori, che più delle volte sovrasteranno le chitarre nell'economia generale dei pezzi.

SIGNALS (1981)

Dopo i livelli qualitativi stratosferici raggiunti con Moving Pictures, per i Rush sembrava impossibile ripetersi. Invece con Signals riescono addirittura ad offrire un prodotto di caratura forse anche superiore al precedente: 8 brani di assoluto valore, uno stile musicale variegatissimo in grado di accontentare ogni palato, ma soprattutto un album che, sebbene sicuramente di transizione, non rinnega alcun elemento del Rush-sound che abbiamo apprezzato fino ad ora, innestandovi una dose di tastiere molto più massiccia rispetto al passato ma che non sovrasta quasi mai l'energia delle chitarre. The Analog Kid e New World Man continuano per certi versi il discorso intrapreso nell'album precedente da Red Barchetta e Limelight: un bel rock energico, melodico e sostenuto, dove fanno capolino qua e là richiami a sonorità alla Police. Digital Man è un gradevolissimo shuffle con influenze reggae dove spicca il basso di Lee, ed è l'unico altro pezzo a non essere caratterizzato dalla presenza decisiva dei sintetizzatori: infatti questi marchiano a fuoco eccellenti brani come Chemistry (dove puntellano efficacemente le linee vocali di Lee) e The Weapon (dove il pulsare del synth costituisce l'ossatura ritmica e armonica di quasi tutto il brano), mentre nell'allegro conclusivo Countdown diventano (per la prima e ultima volta per i Rush finora) addirittura protagonisti di un assolo. Ma i brani per i quali l'acquisto del disco è obbligatorio sono Losing It e Subdivisions. Il primo è una mini-suite assolutamente d'atmosfera, melodicissima e dai toni soffusi, con efficaci interventi di violino (altro interessantissimo esperimento fino ad ora mai ripetuto) suonato dall'ospite Ben Mink e giocata in maniera magistrale su tempi dispari. Riguardo Subdivisions, premetto che è il mio pezzo dei Rush preferito in assoluto, e di conseguenza rischio di lanciarmi in lodi sperticate (e gratuite)... ve le risparmio, limitandomi solamente a consigliarvi di ascoltarla per apprezzare (per l'ennesima volta) la classe compositiva dei nostri.

GRACE UNDER PRESSURE (1984)

E' un periodo di rivoluzioni in casa Rush: il crescente interesse per i sintetizzatori, Lifeson che rinnova il suo sound optando per sonorità molto devote a Andy Summers (Police) e The Edge (U2), ma soprattutto la ricerca di un nuovo produttore più avvezzo a sonorità "tecnologiche", dopo l'ultima prova non proprio esaltante offerta dal fido Terry Brown su Signal, che porterà alla scelta di Peter Henderson. E la metamorfosi, tanto temuta da quei fan che avevano già cominciato a storcere il naso di fronte ai pezzi piuttosto "squadrati" di Signals, è ormai compiuta: i Rush non vogliono (o non possono) più scrivere pezzi epici o sperimentali, e decidono di mettere il loro talento al servizio della forma canzone. Il risultato è un disco piuttosto facile o commerciale quanto si vuole, ma ciò non toglie che i Rush abbiano sfornato l'ennesimo capolavoro: impossibile individuare una canzone debole tra le otto proposte, tutte energiche ed arrangiate con gusto e mantenendo sempre il giusto equilibrio tra chitarre e tastiere. La triade iniziale è da antologia: l'opener Distant Early Warning non poteva essere un biglietto da visita migliore per questi Rush nuovo corso, mentre le successive Afterimage (fiammeggiante e intensa, e con delle strepitose parti strumentali) e Red Sector A (il dramma dei campi di concentramento tradotto in musica) si contendono il posto di capolavoro del disco.
 
Nel consueto tour mondiale, i Rush girano per l'Oriente e le Hawaii per la prima volta, tenendo l'Europa fuori dall'itinerario. Un film-concerto è registrato al Toronto's Maple Leaf Gardens tranne il drum solo, per la regia di Terry Brown. 

POWER WINDOWS (1985)

A fine '85, dopo l'ennesimo avvicendamento alla console (Peter Collins in sostituzione di Peter Henderson), danno alle stampe il loro nuovo lavoro. Le coordinate sonore e stilistiche sono molto simili al disco precedente,
magari è solo più marcata la presenza dei synth e la tendenza alla semplificazione delle strutture musicali verso un suono di facile assimilazione ma non scontato o subdolamente commerciale. Otto brani come il precedente lavoro, tutti di ottima qualità e tra i quali riusciamo ad individuare quattro brani sicuramente con una marcia in più: Big Money apre le danze con un bel riff, ma tutto il pezzo è un concentrato di energia e un futuro "must" per le esibizioni dal vivo, Manhattan Project è un trionfo di melodia e classe e Mystic Rhythms vede le percussioni di Peart protagoniste assieme ai synth nella creazione di una magica atmosfera. Il capolavoro del disco comunque è Marathon: un lavoro di basso eccellente, una melodia perfetta e un arrangiamento magistrale (con tanto di orchestra e cori registrati agli Abbey Road studios). Personalmente ritengo Power Windows un pelino inferiore al suo predecessore, ma resta comunque un grande disco, consigliato soprattuto ai fan più "open-minded" o comunque a chi ha voglia di sentire grande musica indipendentemente dal genere proposto. I Rush, a conferma dell'efficacia del nuovo corso, hanno anche il conforto delle vendite, e ora sono uno dei pochi artisti degli anni '80, con Elvis Costello, Prince, Kenny Rogers e Pat Benatar con il piu' grande numero di album d'oro o di platino, come riportato dalla rivista Rolling Stone .

HOLD YOUR FIRE (1987)

La puntata finale della saga dei Rush in versione techno-rock è rappresentata da Hold Your Fire. Il disco all'epoca si fece notare per una produzione allo stato dell'arte (infatti fu inciso interamente in digitale, cosa che ai tempi era abbastanza inusuale), che però riascoltata oggi risulta essere leggermente priva di mordente, e si candida come il disco più easy-listening mai inciso dal gruppo: i dieci brani proposti si lasciano ascoltare con piacere, con buone linee melodiche ed arrangiamenti dove la fanno da padrone tempi lineari e ritmiche squadrate. I synth di Lee fanno la parte del leone e sempre con suoni variegati e piacevolissimi, Lifeson privilegia un lavoro di cesello e l'uso di chitarre dal suono pulito, mentre l'impronta ritmica di Peart è sempre riconoscibile sebbene "filtrata" da un frequente utilizzo di percussioni elettroniche. La parte migliore del disco è senza dubbio il trittico iniziale: la trascinante opener Force Ten, il bel singolo Time Stand Still (dove è presente la voce femminile di Aimee Mann) e la mia preferita Open Secrets, ma anche il resto dei brani è degno di nota (altre perle sono ad esempio Prime Mover e Mission). Disco consigliatissimo, anche se adatto soprattutto ai fan meno "oltranzisti".
 
Come di consueto la band va in tour, e gli show tenuti a Birmingham in Inghilterra vengono registrati per un futuro live album. Questo disco, sebbene pronto, verrà però pubblicato ad inizio '89 accompagnato da un bellissimo video; si tratta dell'ultimo lavoro dei nostri per l'etichetta Mercury.

A SHOW OF HANDS (1989)

Dopo quattro studio album arriva puntuale il live. Come è facile intuire, esso è un compendio dell'ultima Rush-era (le uniche concessioni al "passato" sono Witch Hunt e Closer To The Heart): l'esecuzione è impeccabile, la produzione si mantiene patinata come nelle ultime prove in studio e i brani migliori (da Subdivisions a Force Ten, passando per Red Sector A) ci sono quasi tutti. Sostanzialmente, un ottimo greatest-hits del periodo '82-'87.
 
Durante una pausa della lavorazione del nuovo disco, ad Alex viene chiesto di suonare con Ritchie Blackmore (Deep Purple, Rainbow), Robert Plant (Led Zeppelin), Ian Gillan (Deep Purple), Brian May (Queen) e Bruce Dickinson (Iron Maiden), tr
a gli altri, per Rock Aid Armenia, un singolo di beneficienza che si piazzera' al n. 39 in UK con Smoke on the Water. A Neil viene chiesto di suonare alcune parti di batteria, ma declina l'offerta.

PRESTO (1989)

Il disco che apre la nuova era dei Rush è quasi all'unanimità considerato un mezzo passo falso. Il perchè è presto detto: si tratta di un disco con troppi filler, troppi pezzi buttati qua e là giusto per fare numero; inoltre il ritorno ad un uso più massiccio (che porta decisamente in secondo piano l'influenza dei synth nella costruzione dei brani) della chitarra non è supportato dalla produzione troppo perfettina, che penalizza purtroppo anche la batteria di Peart. Ad ogni modo, si parlava prima di "mezzo passo falso", non quindi di un disco da buttare: l'opener (nonchè singolo) Show Don't Tell è un brano pressochè perfetto, dal grande riff e dal grande intermezzo strumentale (dove Lee sfodera la sua grande tecnica), che fu un grande successo come singolo; The Pass e Red Tide sono altri pezzi sopra la media, ma il vero capolavoro lo troviamo alla fine del disco, in Available Light. Si tratta di un brano che suona davvero poco "Rush", trainato da dolci note di pianoforte e dalla toccante interpretazione di Lee, e con un ritornello davvero vincente. 
 
La Mercury si congeda dai Rush pubblicando l'antologia Chronicles, mentre il gruppo si dedica ad un tour di 6 mesi organizzando anche una raccolta di cibo per i senzatetto. Nel Novembre del 1990 Geddy e Neal ricevono il premio come miglior bassista e batterista rispettivamente, al Toronto Music Awards e alla fine dello stesso mese, la Canada Academy of Arts and Sciences, premia i Rush come artisti del decennio.

ROLL THE BONES (1991)

I Rush si riscattano presto del non eccelso risultato artistico del disco precedente, col nuovo Roll The Bones. Il disco è una diretta prosecuzione del disco precedente in quanto a sonorità e produzione (quindi il sound si mantiene un pò troppo "inscatolato"), ma fortunatamente il livello qualitativo dei brani è decisamente più alto, e solo l'ultima You Bet Your Life mi sembra leggermente poco ispirata. Fondamentalmente possiamo definire questo disco come un perfetto rappresentante di quello che i Rush hano fatto nelle ultime prove in studio, nonchè come un anticipatore delle coordinate su cui si muoveranno i successivi dischi. Infatti abbiamo pezzi che è facile associare a Grace Under Pressure o Power Windows (ad esempio Dreamline, The Big Wheel o la strumentale Where's My Thing), nonchè brani come la title-track o Face Up che anticipano la futura tendenza ad un suono più massiccio e "groovy"; molto frequenti anche momenti molto rilassati, come in Bravado e Ghost Of A Chance, anche se tali brani non possono essere assolutamente etichettati come ballad. E' molto difficile, in mezzo a tanti brani di qualità, segnalarne qualcuno in particolare: diciamo che personalmente prediligo il trittico iniziale Dreamline (che ci riporta ai fasti di Distant Early Warning e Big Money), Bravado (dolcissimo brano, trainato da un ipnotico arpeggio di chitarra e con un intermezzo strumentale da antologia) e Roll The Bones (che dimostra come è possibile unire in un solo brano atmosfere funky, un riff zeppeliniano, un morbido ritornello in cui dominano chitarra acustica e organo e, udite udite, un riuscitissimo intervento rappato su batteria elettronica). Probabilmente, assieme a Hold Your Fire, il disco più easy-listening mai inciso dai nostri, dove forse una volta tanto si privilegiano le parti cantante (gran parte delle linee vocali e dei ritornelli dell'album sono davvero ineccepibili) rispetto alla componente strumentale; è comunque un disco consigliatissimo e da avere. 
 
Pochi avvenimenti di rilievo in seguito: tour mondiale con i Primus come supporter, diversi riconoscimenti ottenuti (come ad esempio premi alla carriera e diversi Juno Awards), e Geddy che cura un cd tributo al bassista Jesse Jamerson.

COUNTERPARTS (1993)

Ormai le coordinate del nuovo Rush-sound sono chiare: un suono rock di classe, quasi nessun retaggio del vecchio periodo progressive, chitarra in primo piano, interventi di synth col contagocce. Ma, mai come questa volta, pezzi ricchi di groove frutto di un affiatamento pazzesco tra basso e batteria e di un'eccellente prova di Lifeson (ma probabilmente ha avuto il suo contributo anche il contemporaneo successo di band come Red Hot Chili Peppers e i succitati Primus). 12 pezzi, alcuni stupendi, alcuni un pò meno ma che vengono comunque risollevati dalla gran qualità del suono; i migliori mi sembrano l'opener Animate (groove + melodia allo stato puro), il buon singolo Nobody's Hero, la pompatissima Cut To The Chase (con un grande assolo di Lifeson) e la strumentale Leave That Thing Alone. Quest'ultima è per me il vero capolavoro del disco, nonchè il miglior strumentale mai inciso dai nostri, più "quadrata" rispetto a La Villa Strangiato e meno aspra di YYZ. In definitiva un disco fresco, accattivante, da ascoltare a volume sostenuto; sicuramente il migliore della quarta fase Rush, anche se non mi sento di consigliarlo indiscriminatamente... 
 
Nei tre anni successivi alla pubblicazione di Counterparts, tra gli avvenimenti più rilevanti abbiamo il consueto tour mondiale, e diverse uscite discografiche in qualche modo relate ai Rush. Abbiamo Neil che cura il cd Burning For Buddy: A Tribute to the Music of Buddy Rich (tributo al grande batterista jazz), Alex che ci propone il suo debutto solista autoprodotto Victor, con gli ospiti Les Claypool dei Primus, il chitarrista di Tom Cochrane Bill Bell e addirittura la moglie di Alex ed il figlio Adrian (Alex parla sull'album ma e' Edwin degli I Mother Earth a cantare la gran parte delle canzoni, ruolo che in un primo momento doveva essere ricoperto da Sebastian Bach), ed infine l'etichetta Magna Carta fa uscire un album tributo non autorizzato, mixato da Terry Brown, dove diversi musicisti metal e hard-rock (citiamo ad esempio Portnoy e Petrucci dei Dream Theater, e Billy Sheehan dei Mr. Big) si cimentano con buoni risultati in cover dei Rush, privilegiando il repertorio più progressivo della band.

TEST FOR ECHO (1996)

Dopo i lusinghieri risultati (sia artistici che commerciali) ottenuti con Counterparts, i Rush decidono saggiamente di non stravolgere il loro sound. Infatti il nuovo album Test For Echo è la perfetta prosecuzione del discorso intrapreso dal disco precedente (stesse coordinate stilistiche e sonore, stesso livello qualitativo), ma parallelamente recupera degli aspetti della vecchia produzione che sembravano perduti. Ad esempio abbiamo il ritorno a scansioni ritmiche irregolari (ma sempre ben inquadrate nell'ottica attuale della band di produrre pezzi più diretti) nell'ottima Driven, o i synth che tornano a dominare l'andamento di alcuni brani, come succede in Time And Motion e Resist. Questi due brani sono entrambi eccellenti e sono i brani più atipici dell'intero disco: il primo offre delle atmosfere cupe e minacciose (concettualmente parlando ricorda un pò Witch Hunt), mentre il secondo è una gioiosa ballad, il mio brano preferito di tutto l'album. Ma i pezzi degni di nota non finiscono qui: ricordiamo ad esempio la bella title-track (nonchè brano d'apertura), l'orecchiabile ed energica Virtuality (che ricorda un pò Roll The Bones nel suo alternarsi di chitarre acustiche ed elettriche) e Limbo che, come del resto tutti gli altri strumentali dei Rush, non può che essere un capolavoro.
 
Dopo l'ultimo album la vita di Peart (che intanto ha pubblicato la seconda parte del suo tributo a Buddy Rich e ha anche scritto un libro sulla vita "on the road" della band) è sconvolta da due tristi episodi: nell'agosto del '97 la sua unica figlia Selena muore in un incidente stradale, e neanche un anno dopo perde per un cancro (nel bel mezzo dei lavori di mixaggio del nuovo album) la moglie.

DIFFERENT STAGES (1998)

Ovviamente l'attività del gruppo viene bloccata e nascono anche voci di un imminente scioglimento della band. Nonostante ciò i Rush fanno uscire nel 1998 un triplo album dal vivo (dedicato alla moglie e alla figlia di Peart), con i primi due dischi che contengono le loro migliori canzoni tratte dai due precedenti tour e con il terzo disco che contiene canzoni del concerto tenuto all'Hammersmith Odeon di Londra del 1978 (nel mezzo del A Farewell To Kings tour): decisamente un perfetto compendio dell'attività attuale e passata del gruppo, contornato da esecuzioni come al solito impeccabili. Una curiosità: l'uscita del disco è stata ritardata a causa delle proteste dei fan per la mancanza, nella tracklist preliminare, di pezzi tratti da Presto e Signals.
 
La mancanza di un tour a supporto dell'album live (nonchè la carenza di notizie ufficiali) fa seriamente temere che l'avventura dei Rush sia finita. Fortunatamente, nella primavera del 2000, fonti ufficiali affermano che i Rush ritorneranno in studio subito dopo l'uscita del disco solista di Lee My Favourite Headache (album che vedrà la luce nel novembre del 2000). Considerando che in genere, dopo il disco live, i Rush hanno fatto sempre uscire il disco che preannuncia una nuovo corso musicale, cosa aspettarsi ora?
 

VAPOR TRAILS (2002)

Per conoscere la risposta, bisogna attendere fino alla primavera del 2002 quando, finalmente, arriva nei negozi il tanto atteso nuovo album dei Rush. Le sonorità non sono niente di originale, in quanto si tratta essenzialmente del sound di Counterparts però più indurito e rozzo (da notare inoltre l'assoluta mancanza di tastiere e di assoli), ma in fin dei conti non è un problema se esse sono da contorno a belle canzoni; purtroppo l'assoluta mancanza di brani all'altezza della reputazione Rush è il tratto distintivo di questo album. I nostri infatti ci propongono 13 brani assolutamente da dimenticare quasi in blocco, quasi tutti privi di uno straccio di melodia decente e dei geniali arrangiamenti e tocchi strumentali del passato: se non ci fosse a cantare Lee con la sua inconfondibile voce, parrebbe quasi ascoltare un gruppo alternative-rock qualsiasi. Il problema di fondo è che quasi tutti i pezzi partono bene, ma subito si perdono per strada con linee vocali sciatte ed arrangiamenti banali; un esempio tipico è l'opener One Little Victory: un'ottima intro di batteria subito affiancata da un potente riff... poi il nulla più assoluto. Dal naufragio salverei giusto un paio di pezzi che raggiungono a stento una striminzita sufficienza (vale a dire Ghost Rider, Secret Touch), e un'altro paio che la mancano per poco (Earthshine e Sweet Miracle). Avrete pertanto capito che il mio consiglio è di evitare come la peste questo album, comunque tenete presente che siamo in pochissimi a pensarla così, in quanto la maggior parte del web e della stampa ha letteralmente osannato questo album... fate un pò voi!

RUSH IN RIO (2003)

I Rush intraprendono un tour che dura da giugno fino a novembre, e catturano su CD e DVD un loro show tutto-esaurito a Rio de Janeiro in Brasile. Approdati in Sud America per la prima volta nella loro carriera, i Rush offrono una prestazione straordinaria, accentuata dal calore con cui i ragazzi di Rio hanno accolto la band. La setlist offre un'ampia panoramica sulla produzione passata che su quella più recente, ma quando si dispone di un repertorio con tanti classici è impossibile pensare di non tralasciarne qualcuno (ed infatti, per mio sommo dispiacere, non sono presenti ad esempio Subdivisions, Marathon o Show Don't Tell). Vivamente consigliata soprattutto la visione del DVD; è imminente inoltre l'uscita di un EP di cover di classici rock-blues intitolata Feedback.
 
Mirrormaze
luglio 2004

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