Lo scorso agosto abbiamo assistito all'esibizione dei Forty Days nell'ambito del Porretta Prog Legacy e ci eravamo ripromessi di parlarvi di questa band, che ci aveva già dato una buona impressione con il debutto "The colour of change", avvenuto nel 2017 per la Lizard Records.
Il quartetto toscano composto da Giancarlo Padula (voce e tastiere), Dario Vignale (chitarra e backing vocals), Massimo Valloni (basso) e Giorgio Morreale (batteria) è attivo con questa line-up dal 2015 e cita tra le proprie influenze colossi del prog e del rock, come Pink Floyd, Marillion, Led Zeppelin, Supertramp, ma anche artisti più moderni come Porcupine Tree, Steven Wilson e Calibro 35.
I Forty Days si presentavano al pubblico prog con il citato "The colour of change", lavoro subito interessante e che può essere inquadrato come un concept che parla dei pensieri, delle insicurezze e delle preoccupazioni di un ragazzo prossimo ai 30 anni.
L'album mescola influenze floydiane e sinfoniche, ma non solo. Traspare la forte passione verso il classico prog degli anni '70 e, al contempo, la voglia di trasportarlo ai giorni nostri. Così, le derivazioni di "Wish you were here" dell'opener "Looking for a change" si fanno sanguigne (anche per merito della voce di Padula) con lo scorrere dei minuti e il discorso è simile per la strumentale "Uneasy dream", che vede però come punto di riferimento più i Camel. A seguire, segnaliamo due pezzi che potremmo definire di blues-prog, dall'andamento un po' indolente, ma che presentano anche qualche "scossone", intitolati "The garden" e "John's pool", che trasmettono sensazioni malinconiche e che sono separati da "Homeless", nove minuti di romanticismo languido, che partono tra trame acustiche di chitarra e si sviluppano tra abili melodie vocali, slanci new-prog e parti strumentali ad ampio respiro, nelle quali Vignale può flanciarsi in guitar-solos eleganti e gilmouriani. Non cambia il mood con "Restart": inizio è delicato con piano e voce, poi l'entrata della sezione ritmica vivacizza un po' le cose e il sound, tra rallentamenti e accelerazioni, rievoca i Marillion. La conclusione è affidata a "Four years in a while", aperta come una ballad semiacustica, ma che poi va in crescendo e prorompe nuovamente verso sensazioni più epiche, mettendo in mostra classici cambi di tempo e di atmosfera e ottime soluzioni strumentali che evidenziano l'affiatamento dei musicisti. In conclusione, non esitiamo a dire che "The colour of change" è un album immediatamente convincente, nel quale i Forty Days si mostrano abili a far convivere le loro diverse influenze.
Nel 2019 la band partecipa all'album tributo ai Blue Oyster Cult, "The dark side of the Cult", pubblicato dalla Black Widow, con una rilettura della celebre "(Don't fear) The Reaper".
Superato il complicato periodo della pandemia, i Forty Days si mettono al lavoro per dare un seguito al disco d'esordio e il nuovo cd "Beyond the air" viene pubblicato nel 2023, nuovamente dalla Lizard. Si tratta di un altro concept album, impegnativo, visto che narra il percorso di un uomo che con la sua sensibilità si deve scontrare con l'indifferenza umana che si ritrova continuamente intorno. Da un punto di vista musicale, si avverte la voglia di una maggiore immediatezza, ma si ravvisa una notevole maturità nel risultato finale. L'orientamento è più rock, più essenziale e fin dalle prime battute dell'opener "Monday" si ravvisa un sound più moderno, attualizzando il new-prog dei primi Marillion. Stesso discorso per la successiva "Under the trees", ma mentre scorrono i brani si alternano soluzioni heavy prog (Rush meets Porcupine Tree in "The fog"), divagazioni tra il sinfonico e l'A.O.R. ("Broken bars"), una ballad malinconica ("B4 the storm"), una strizzata d'occhio a Steven Wilson (la title-track), un finale che dopo una partenza hendrixiana vira verso una grandeur sinfonico/romantica, con tanto di cambi di tempo e atmosfera ("In glide", non a caso la traccia che più si prolunga come minutaggio) e segnaliamo addirittura un episodio strumentale funky/fusion, che ha tiro, freschezza, un groove incandescente e trascina dal primo all'ultimo secondo ("Bi!"). Il tutto tra riff che donano calore, solos brevi, ma efficaci, una ricerca melodica accattivante, ma non banale, parti cantate convincenti e qualche inevitabile reminiscenza floydiana qua e là. L'album è decisamente più grintoso rispetto all'esordio ed è sicuramente destinato maggiormente a chi nel prog cerca melodia e parentela col new-prog, non certo a chi ama proposte particolarmente complesse, anche se le sorprese non mancano. Sta di fatto che i Forty Days hanno mostrato una piena maturità, con un lavoro ben suonato, professionale e che nel suo genere dà piene garanzie.
Peppe
febbraio 2024
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