| Brani: | |
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1-Inaugural Bash (26:57); 2-August in the Urals (15:52); 3-Abandoned Mansion Afternoon (12:14); 4-A Squirrel (8:45); 5-The Solitude of Miranda (7:18). |
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| Formazione: | |
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Dan Britton: keyboards, vocals (1-3), guitars (2), acoustic guitar
(5); Dave Berggren: guitars (1,3-5); Patrick Gaffney: drums; Brett
d'Anon: bass (1-4), oud (2); Frank d'Anon: xylophone (1), trumpet (1),
flute (1), keyboards (5); Jeff Suzdal: saxophones (1); |
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| 2006, Emkog Records |
Le riletture, le revisioni sono ambiti scivolosi. I risultati ottenuti possono essere manieristici, privi di spessore, una pallida imitazione di un qualcosa di mai veramente acquisito, se non esteriormente.
Eppure nel trovarsi davanti all’opera prima dei Deluge Grander, August in the Urals, pensi invece che questi quattro soggetti provenienti da Baltimora (coadiuvati da altri ospiti), siano invece riusciti a far loro i dettami del progressive, il cui periodo aureo, o comunque di massima visibilità, ha avuto compimento molti anni prima l’inizio della loro attività musicale. Un’appropriazione e una rielaborazione i cui risultati sono contenuti nelle cinque composizioni dell’album, per una durata che supera i settanta minuti. Il minutaggio elevato tuttavia non gioca a sfavore dell’ascoltatore, che se ai primi ascolti preferirà fermarsi dopo le prime due tracce (una suite di 20 minuti e una più breve di 15), con il prosieguo riuscirà ad apprezzare la proposta in un’unica soluzione e a perdersi nei paesaggi sonori prodotti (la copertina e l’interno del libretto offrono un vistoso indizio di che cosa la musica propone). Il canone principale su cui si muove l’album, in gran parte strumentale, è il progressive sinfonico, anche se non manca una certa strizzatina d’occhio al Canterbury. Gli ingredienti ci sono tutti: tastiere magniloquenti, ampie sessioni di mellotron, chitarre dal sapore frippiano o genesisiano, escursioni dei fiati. Il tutto però viene condotto con gusto e giusta alternanza tra le parti, come si può già apprezzare nella prima traccia Inaugural Bash, dove chitarra e mellotron dividono la scena e si alternano, seguiti da una puntuale sessione ritmica che dalle retrovie riesce a dare qualcosa di più di una solida base ritmica. Spazio è dato anche ai fiati, riportandoci alla mente alcune soluzione adottate dagli Hatfield and the North; un ruolo singolare viene giocato dal canto, anche se forse non sarebbe opportuno definire tale il lamento rauco e talvolta schizzato che Dan Britton fa della voce, relegata a singoli episodi all’interno dell’album (soprattutto in Abandoned Mansion Afternoon), che potrebbero far storcere il naso a qualcuno, ma che fondamentalmente non abbassano il livello qualitativo dell’album. Anche se non di facilissima reperibilità, questo è un album cui appassionati e non dovrebbero comunque farci un pensierino, dove i più smaliziati troveranno subito di loro gusto la proposta di questa band statunitense e dove dopo ripetuti ascolti sarà ancora possibile trovare qualcosa di nuovo.Roberto Cembali
ottobre 2013
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