Landberk - Indian Summer

LANDBERK Indian Summer reviews

1996, Record Heaven

Quando nei primi anni '90 il mondo del progressive cominciava a mostrare una vivacità maggiore rispetto al decennio precedente tre gruppi svedesi riuscirono a catturare un bel po' di attenzioni. Se gli Anglagard restano oggi quelli probabilmente più amati e gli Anekdoten i più costanti, i Landberk sono senza dubbio i più sottovalutati. Anch'essi, come i loro colleghi citati, hanno mostrato da subito delle influenze crimsoniane abbastanza marcate, sia per l'ampio utilizzo del mellotron, sia per certe soluzioni sinfoniche che rimandavano ai primi album di Fripp e compagni. Eppure, nonostante dei riferimenti abbastanza evidenti, fin dall'esordio del 1992 con Riktigt akta, i Landberk, più dei loro connazionali maggiormente seguiti, hanno cercato un percorso personale, provando a distaccarsi da qualsiasi cliché attraverso una proposta che, pur mostrando riferimenti al romanticismo dei primi King Crimson, vedeva anche una malinconia più tipicamente nordica, parzialmente debitrice del Progg svedese degli anni '70 e pronta ad insinuarsi nel cuore degli ascoltatori con atmosfere brumose ed una chitarra minacciosa. Di Riktigt akta esce lo stesso anno una versione con testi in inglese, mentre due anni dopo One man's tell another segna un ulteriore passo di avvicinamento verso una piena maturità. Il live Unaffected del 1995 (che in origine doveva essere allegato ad un numero della celebre fanzine italiana Melodie & Dissonanze, poi mai uscito) precede di un anno la pubblicazione di quello che è il canto del cigno dei Landberk, intitolato Indian Summer. Si tratta di un album controverso, caratterizzato da un sound ancora più compassato e misterioso dei suoi predecessori, eppure assolutamente meraviglioso, ma non così facile da inquadrare per chi si aspettava e voleva ancora forti tinte cremisi e timbriche comuni nei lavori prog.

Ancora oggi, probabilmente, in molti non hanno capito in pieno lo straordinario lavoro fatto dai Landberk con questo disco. D'altronde, si sa, il famoso/famigerato "progfan medio" si esalta per la spettacolarizzazione del sound, per i tecnicismi, per i tempi dispari, per tastiere sinfoniche a tutta forza, per le timbriche vintage, per i netti rimandi ai grandi colossi dei seventies. Ebbene, poco e niente di tutto questo si trova in Indian Summer! In Indian Summer troviamo ritmi morbidi, una malinconia ancora più accentuata e quasi disturbante in alcuni frangenti, un grandissimo senso per la melodia, la ricerca di un'orecchiabilità immediata, ma che pure mantenga le distanze dal pop più banale, un guitar-playing sobrio, personale, a volte distorto senza eccessi ed altre raffinato con timbri e momenti solisti che non era così facile trovare in quegli anni.

Ma andiamo con ordine. Il cd si presenta in una classica confezione jewel-case ed una copertina dalle tinte chiare e tenui in cui spicca il grembo di una donna incinta. Il libretto è molto avaro di informazioni, contiene qualche altra immagine legata alla cover e brevissimi estratti dei testi dei brani; non è neanche indicata la line-up del gruppo. La formazione ve la indichiamo noi: ne fanno parte Stefan Dimle (basso), Reine Fiske (chitarre), Patric Helje (voce), Jonas Lindholm (batteria) e Simon Nordberg (tastiere). In più, sono presenti come ospiti Sara Isaksson alla voce, Lotta Johansson al sax e Sebastian Oberg al violoncello.

Tocca a Humanize il compito di aprire il disco (che dura circa quarantasette minuti e mezzo) e inizia con mezzo minuto d'atmosfera, con curiosi suoni di una chitarra che poi detta il riff che ci fa entrare nel vivo del brano insieme al maestoso mellotron. Subentrano le parti cantate, più dirette che in passato eppure stravaganti e si va avanti fino ai sei minuti con questo rock moderno, che comincia a pennellare scenari sonori desolati eppure incantevoli. E' con i nove minuti di All around me che si entra nel vivo di Indian Summer. Questo brano ci introduce le caratteristiche che saranno maggiormente presenti nell'album: un andamento lento, dettato da ritmi particolarmente compassati, melodie vocali dirette, ma tutt'altro che scontate, la malinconia a regnare sovrana, la chitarra di Fiske che tratteggia scenari sonori particolari, il solito mellotron che prova a spingere la musica verso sentieri sinfonici che in realtà non vengono mai raggiunti, dei crescendo emozionanti che non sfociano mai in momenti aggressivi. Meravigliosi gli ultimi tre minuti strumentali, dall'elegantissimo lavoro di basso e batteria, con il mellotron in sottofondo e le sue note lunghe, mentre la chitarra si lancia in un lungo e coinvolgente assolo.
Quasi in contrapposizione a questa traccia segue 1st of May, che vede i Landberk impegnati nell'altro lato di una stessa medaglia: un rock ancora diretto, ma più conciso e dai ritmi più veloci e dalla chitarra quasi hard stemperata solo dalla voce pulita di Helje.
Altri brani "up-tempo" che mostrano queste peculiarità sono Dustgod e Dreamdance.
I wish I had e boat e, soprattutto, Why do I still sleep (quest'ultima considerata da molti il capolavoro dei Landberk) ci riportano a quelle atmosfere elegiache e ai ritmi lenti. Se la prima mostra una delicatezza ancora maggiore con alcune indovinate trame acustiche, con la seconda, in quasi otto minunti, l'alone di tristezza si fa ancora più marcato, con la voce di Helje che si fa ancora più sofferta ed il climax viene raggiunto quando interviene l'ospite Sara Isaksson ammaliando l'ascoltatore col suo canto da sirena.
L'ultimo brano è rappresentato dalla title-track ed è una conclusione indolente e perfetta di Indian Summer, con cinque minuti quasi stranianti, in cui chitarra e voce portano quasi agli estremi quel senso di malinconia che ha inondato l'album fin dalle prime battute.

Col senno di poi si può dire che Indian Summer, sotto molteplici aspetti, è un album che ha anticipato i tempi: troviamo il post-rock prima del post-rock, soluzioni a cui Steven Wilson arriverà solo qualche lustro dopo, persino idee sviluppate maggiormente dai Radiohead negli anni a seguire. Sono stati scomodati gl iartisti più svariati per individuare le scelte sonore adottate dalla band svedese in Indian Summer, dagli eroi del prog King Crimson e Van der Graaf Generator ai Talk Talk, passando per David Sylvian, Joy Division, Radiohead e persino U2 e Cure. La realtà è che le influenze restano tali e si percepisce chiaramente che il quintetto svedese non vuole ripercorrere le orme di nessuno e punta a lasciare le proprie creando un disco che è rimasto davvero unico, che può essere considerato, a ben vedere, l'ultimo passo di una naturale evoluzione che ha portato i Landberk degli esordi a una maturità spiazzante, diventando molto più introspettivi, ma regalando emozioni a volontà con un pugno di canzoni perfette e dagli arrangiamenti sopraffini. 
Se Indian Summer fosse stato un best seller come OK computer oggi sarebbe probabilmente visto come album imprescindibile e pietra miliare del periodo; è rimasto invece circoscritto a quella nicchia che è il mondo prog; si arriva così a quello che può essere un vero e proprio paradosso: l'album sembra troppo di confine per il progfan e troppo legato al progressive per attecchire ad un mercato più ampio. Forse è stata questa la sua condanna e la condanna dei Landberk. 

Reine Fiske resterà molto attivo in altri ambiti, a partitre dal progetto Morte Macabre creato insieme Stefan Dimle e a musicisti degli Anekdoten, dando vita ai Paatos ancora con il contributo di Dimle e suonando e collaborando con numerosi altri artisti, tra i quali segnaliamo Dungen, Trad Gras Och Stenar, Elephant9, The Amazing. Storie ancora affascinanti, alle quali consiglio di avvicinarvi, anche se non sono riuscite a ripetere la magia dei Landberk e di Indian Summer.

Peppe
settembre 2015

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